E. QUESTA: Nelle Alpi Apuane (L?Alto di Sella)

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  • #5825
    Anonimo
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    Le scazzottate sulla chiodatura moderna di vie classiche non sono una novit? di questi ultimi giorni. E? una questione dibattuta e sviscerata e a volte credo finita in rissa non solo verbale. Su questo tema la diversit? di opinioni sembra raggiungere sempre il calor bianco.

    Io sono tendenzialmente tradizionalista e rispettoso di tutto ci? che ci parla del passato e quindi anche delle vie storiche (francamente i golfari sulla Oppio spero di non doverli mai vedere). Ma a parte questo rispetto i punti di vista differenti e soprattutto ho pi? domande che risposte. Su certe questioni poi, credo che non esistano risposte buone per tutti. La risposta ognuno dovrebbe formularla ascoltando e documentandosi. E documentarsi significa confrontarsi con le opinioni degli altri, ma soprattutto con le imprese, gli scritti e le opinioni dei nostri predecessori.

    Recentemente ho letto la relazione della salita all?Alto di Sella che E. Questa scrisse per la ?Rivista mensile del CAI? (vol. 10, 1904 – pubblicata qualche anno fa nel volume ?l?Ombrello di Freshfield? di C. Mariani). Poco dopo aver scritto queste pagine Questa perse la vita su quella Aiguille d?Arves che proprio in quella relazione aveva definito meno difficile della salita all?Alto di Sella. Nella prefazione alla Guida delle Alpi Apuane del 1922, G. Rovereto, ricordando E. Questa, scrisse: ?quasi che quella montagna francese avesse voluto vendicarsi di averla ritenuta meno difficile dell?ascensione alla vetta apuana dell?Alto di Sella, a Lui riuscita dopo ripetute e arditissime prove.?

    Molti sono a conoscenza dell?impresa di Questa, ma credo che pochi abbiano avuto modo di leggere la relazione di quella prima salita. Penso quindi di fare cosa utile riportando questo pezzo di storia dell?alpnismo apuano.

    [color=#0000FF][b]EMILIO QUESTA
    NELLE ALPI APUANE (L?ALTO DI SELLA)[/b][/color]

    [color=#0000FF]Molto raramente le nostre pubblicazioni si sono occupate della regione apuana, e, se si tolgono gli scritti del compianto Bruni, di Axel Chun, e di qualche altro, nonch? le solite relazioni di gite, mai si trova cenno delle vette di quella regione. Eppure essa racchiude tutto quanto occorre per soddisfare le velleit? del pi? raffinato degli alpinisti moderni: vette aguzze, erte pareti rocciose, canaloni, e nella stagione invernale nevi e ghiacci; solo manca l?elevazione, e se madre natura avesse saputo alzare quelle vette di almeno un altro migliaio di metri, sarebbero certo frequantate da alpinisti e turisti, come lo sono tante altre molto meno interessanti e ben pi? facili.

    Da vari anni visito durante l?inverno questa regione, che per le sue facili comunicazioni e la vicinanza alla mia citt?, mi permette delle rapide corse. Ebbene, posso con tutta franchezza dichiarare che vi superai delle difficolt? tali, che ben raramente incontrai nelle mie gite sulle Alpi. Adunque, perch? non potrebbero i colleghi visitare nella stagione invernale questi monti e acquisirli cos? all?alpinismo militante ?

    Oggidi un rifugio ? gi? stato innalzato su quelle balze e una guida sta per essere pubblicata; mancano solo giovani di buona voglia e qualche bel nome di alpinista che con una sua visita le nobiliti. E le montagne degne di lui non mancherebbero certo: lo s?pigolo Est del Sagro, le creste settentrionali dell?Alto di Sella, il monte Contrario, il Cavallo e il Pisanino potrebbero essere le sue mete. E poich? queste note sono destinate ad un tentaivo di slanciare nel mondo alpinistico quelle vette, dir? ai colleghi di una certa cresta di montagna che ? sempre rimasta inosservata, e che pure cela in s? una rapida via a una bella vetta, procurando in pari tempo all?alpinista le pi? belle emozioni.

    Nele mie peregrinazioni apuane, scendendo un giorno la noiosa via Vandelli, affranto dal caldo mi rifugiai in una piccola capanna di pastori annidata sul contrafforte della Focoletta. Da quel misero casolare una paretaccia rocciosa mi si parava davanti, biancheggiante di cave in basso e terminata al sommo da una cresta tagliente, idealmente aerea, che saliva ad una vetta. Fin d?allora accarezzai l?idea di superarla, e me ne tornai alla citt? col mio desiderio; ma avendo in seguito avuto occasione di ammirarla pi? da vicino, quel desiderio si trasform? in una ferma volont? di riuscire e mi occupai quindi attivamente di essa. Cercai sulla carta; le si assegnava una misera quota (m. 1723) e null?altro. Ne domandai ai cavatori, mi si rispose che da loro era conosciuta per l?Alto di Sella e che per salirvi bisognava fare un lungo giro sul versante di Arnetola. Cercai anche nelle nostre pubblicazioni e finalmente ebbi notizie precise: l?ing. Aristide Bruni vi era salito con le guide Vangelisti e Berti dal Passo di Sella e ne era sceso pel versante di Arnetola incontrando serie difficolt?.

    Da allora passarono diversi anni, varie furono le mie gite in quelle montagne, ma mi mancarono sempre il tempo e l?opportunit? di dar la scalata alla cresta dell?Alto di Sella. Gi? ai tempi della costruzione del rifugio Aronte, attraversata la Tambura e la Focoletta, mi diressi a quella meta: si era in maggio, non vi era pi? neve e fu un caldo snervante che tolse a me e al mio compagno la voglia di andar a vedere pi? da vicino lo spigolo, e ritornammo la sera stessa a Genova. Vi fui nel febbraio seguente, e questa volta con propositi pi? seri, ma si concluse del pari un bel nulla: la neve era cos? bassa e cos? gelata, che per arrivare alla Focoletta ci tocc? lavorare non poco di piccozza. Lass? vedemmo la cresta che adduceva al nostro monte cos? ben orlata di cornici che non pensammo nemmeno a proseguire oltre (eravamo in due ed erano gi? le 11) e facemmo ritorno sotto una bella nevicata.

    La mia primitiva idea , che per superare quelle rocce occorresse della buona neve che desse presa, si era ora modificata completamente. Se facilitava il primo tratto di cresta, rendeva pi? difficile e forse insuperabile il tratto superiore, sempre rivestito di lucente vetrato che producevano gli scolaticci delle nevi soprastanti. Bisognava quindi dirigersi alla montagna e sorprenderla non appena avesse smesso il suo manto nevoso.

    Nel maggio del 1903 mi diressi dunque a quella volta, colla ferma volont? di riuscire. Da Genova a Resceto il solito noioso viaggio: 4 ore di treno diretto e 13 chilometri di stradale, stradale per modo di dire, perch? ? una via tutta buche e sassi, in certi punti senza spallette, insomma una vera tribolazione il percorrerla. Noi (ero in compagnia dell?amico F. Federici) giunti a Massa verso le 22, ci incamminammo subito per questa deliziosa strada dell aval Frigido, e sonnecchiando, guazzando nelle pozzanghere, e soprattutto bestemmiando, alle 2 arrivammo a Resceto, l?ultimo paese della valle. Era la nostra solita ora. Fino ad allora non v?era che un simulacro di osteria tenuto una buona vecchia, ch eper darvi da dormire doveva cedere il suo letto. Noi, quindi, s?era abituati a tirar via senza fermarci e schiacciare qualche sonnellino su per le vie di lizza. Da oggi in poi questo non accadr? pi?. Il nostro collega Bonini ha aperto un buon alberghetto proprio all?entrata del paese, e l?alpinista potr? trovarvi tutto il comfort desiderabile, condito con la pi? schietta cordialit?.

    Secondo quanto ? stato convenuto, arrivati a Resceto, ci uniamo a una combriccola di amici, che saliranno con noi al passo Tambura; tutti riuniti e con molta allegria proseguiamo verso il passo , ed ? una passeggiata ideale in quelle bolge dantesche illuminate dal pi? bel plenilunio. Quando arriviamo alla casetta dei pastori comincia ad albeggiare. Facciamo una fermata e si chiacchiera dei nostri progetti. Confido agli amici il mio ed essi mi rispondono che di lass? non passer?. Anch?io ne dubitavo; quella mattina la cresta sembrava ancora pi? aerea e pi? stagliata del solito. Ripartiti alle 5, benpresto siamo al cole e ci separiamo, dirigendoci per due direzioni opposte. Io e l?amico Federici contorniamo le pendici della Focoletta e e perveniamo alla cresta nel punto di maggior depressione, laddove ? aperta una cava. Ancora pochi minuti e poi saremo a contatto con le nostre rocce. Cautamente proseguiamo per il primo tratto di cresta pianeggiante, che sul versante di Arnetola ? tagliata a picco e su quello di Resceto precipita con inclinazione vertiginosa, e giungiamo ad un dente. La roccia ? , come nella maggior parte del crinale apuano, un marmo scistoso sul quale non hanno presa n? mani n? piedi; ha ancora un?altra caratteristica: i suoi strati sono tutti volti all?ingi?, insomma presenta tutte le qualit? per essere un rompicollo.

    Noi incominciammo col toglierci le scarpe e col maneggiare la corda, e cos? questo primo dente ? superato abbastanza facilmente e possiamo scendere ad un colletto alla base di un salto della cresta, che ? il punto che ci ha sempre procurato le maggiori inquietudini. Ora per?, che vi siamo tanto vicini, lo troviamo pi? maneggevole di quanto credevamo; forse piantando un cavicchio in uno spacco circa alla sua met?, si potrebbe vincere anche di fronte, ma noi preferiamo, se possibile, evitare questi mezzi. Cerchiamo quindi un punto debole nei suoi fianchi. Sul versante di Resceto i lastroni fuggono con troppo pendio per darci qualche speranza di riuscita, e dobbiamo subito scartarli e rivolgere tutti i nostri sforzi sul lato ch ed? su Vagli. Anche qui i lastroni sono ripidissimi, ma , annaspando e facendo molta aderenza, riesco a spostarmi di alcuni metri su questo versante. Al di sopra l amontagna s?innalza verticale per una decina di metri, solcata da un canalino senza appigli, e al sommo , presso la cresta anche un po? strapiombante. Ormai non vi ? altra via; per vincere bisogna montare lass?. Federici mi raggiunge e si pianta alla base, cercando di prendere una posizione solida sul lastrone, ch? sotto di noi, dopo pochi metri, la montagna precipita sul sottostante nevaio per qualche centinaio di metri. Fortunatamente in questi momenti, come ben disse l?amico Canzio, non si pensa a ci? che abbiamo sotto di noi , o piuttosto a ci? che non vi abbiamo. Facendomi leggero pi? che ? possibile, salgo sulle spalle dell?amico e con molta aderenza riesco ad appiccicarmi alla parete, e sospinto nelle parti posteriori, arrivo a un buon appiglio che mi permette di agguantare la cresta. Lass? presa una posizione solida, aiuto Federici a salire e facciamo una breve fermata.

    Abbiamo superate le nostre colonne d?Ercole, ed ora siamo a buon punto; ci scambiamo a vicenda le nostre impressioni e concludiamo che ? un passo veramente cattivo.

    Sopra di noi la montagna s?innalza con un?inclinazione veramente forte; ancora qualche grado in pi? dipendenza, e non si salirebbe. Le condizioni della roccia sono ancora quelle della cresta sottostante; a picco su Vagli, a lastroni vertiginosi sul versante di Resceto. Il tratto superiore ? lungo ancora una ottantina di metri ed ? ben degnp del suo compagno sottostante; a met? circa vi ? anche un po? di salto di non oltre un paio di metri di altezza, ma che ci obbliga ad una manovra ben poco sicura. A poco a poco la cresta si rompe in grossi massi e diventa facile. Siamo presso la vetta. Raggiungiamo una prima vetta, dalla quale, con un percorso di cresta rocciosa abbastanza facile, saliamo all?estrema sommit?.

    E? stata tanta la nostra preoccupazione durante la salita, che quasi non ci siamo accorti di una nebbia fitta che tutto avvolge. Restiamo in vetta per circa un?ora, ma poco possimao goderci della nostra vittoria, ch? un freddo umido viene a scacciarci e poich? vogliamo ben conoscere ed apprezzare le difficolt? della nostra cresta, decidiamo di ritornare per essa. Strisciando, e sempre con molta aderenza, scendiamo fin pochi metri sopra il salto. Ivi un buon punto ? un gran masso, che ? propiro ci? che fa al caso nostro per passarvi una corda e scendere il salto. Il masso ? di una solidit? a tutta prova e munitolo di un bell? ?anello di Whymper?che rester? lass? a far fede della nostra gita, ci passiamo la corda e ci filiamo gi? per il lastrone. Facilmente arriviamo alla forcella dove riprendiamo sacchi e piccozze, e dopo la cava scandiamo pel canale dei Piastriccioni a Resceto.

    Grato fu il ricordo lasciatomi da questa gita e vivo il desiderio di ripeterla, tanto pi? che ancora una cresta della montagna mi era sconosciuta; intendo parlare di quella Nord-Nord-est che con belle linee cala sul versante di Arnetola. Trascorse quasi un anno dalla mia gita quando ritornai al monte. Ero in compagnia d?un nuovo collega, Mario Corti, e, come al solito, poco dopo mezzanotte attraversammo Resceto, dopo aver lasciati a Massa i numerosi colleghi della carovana sociale. A un?ora d a Resceto, un po? di erba , vera oasi in quella landa desolata, ci invita a un sonnellino, che si protrae pi? dello stabilito, giacch? non ci svegliammo che a giorno fatto. Al passo tambura lasciamo un amico che ci ha accompagnati quass? e proseguiamo per la nostra meta. Contorniamo i pendii della Focoletta, ancora ben ammantati di neve, e per cattive rocce scendiamo il nevaio che fascia la base della parete settentrionale del monte. Il raggiungerlo non ? cosa facile, i lastroni che vi adducono essendo bagnati e scolaticci di neve, e quindi pi? sdrucciolevoli del solito. Il nevaio ? abbastanza ripido , ma ? in cos? buone condizioni, che con pochi scalini abbordiamole rocce di un canale che facilmente ci conduce alla cresta. Il percorso di questa cresta ? di un interesse veramente incredibile; ? una scalata che senza essere difficile ? bellissima e non m?illudo che avr? sempre la preferenza sulla sua vicina. A met? circa della salita vi ? anche un passo che richiede l?aiuto delle spalle; insomma, ci? che si dice una bella salita. Questa volta la vetta ci accoglie benevolmente e possiamo scambiare i saluti con la carovana sociale che sale al rifugio Aronte.

    Ho promesso al mio amico di fargli conoscere lo spigolo Nord-Ovest, ed ? per esso che faremo la discesa. Ormai per me non h api? segreti e lo trovo molto buono. Al masso ritrovo l?anello di corda lasciatovi l?anno scorso; ? bianco e debole per aver trascorso tanto tempo esposto alle intemperie e quindi non mi fido di lui e gli lascio un compagno. Arriviamo cos? al lastrone e ben tosto al passo della Tambura, dov eritroviamo l?amico che Morfeo ha gi? rapito da parecchie ore.

    Mentre scrivo queste note sono di ritorno da un?ascensione alla Aiguille Meridionale d?Arves. Ho quindi cercato di paragonare la salita dell?Alto di Sella con quella dell?Aiguille dal versante di La Grave. Ebbene, coscienziosamente, vagliate tutte le difficolt?, tenuto anche conto del tempo che si impiega per compiere la salita dell?uno e dell?altra, ho trovato che l?uno vale l?altra e che forse ? pi? difficile il lastrone e il salto dell?Alto di Sella, che non quello dell?Aiguille. Al Sella occorrerebbe un migliaio di metri in pi? di elevazione, al posto di un nevaio un piccolo ghiacciaio, e soprattutto un bel nome di alpinista che sapesse metterlo in voga.

    Non mi faccio quindi illusioni sul suo avvenire, e sono certo che a questo modesto monte sar? sempre riservata una vita quieta; forse qualche cavatore potr? spingersi lass? obbligatovi dai suoi lavori, ma dall?alpinista diretto ai pi? elevati gioghi della Tambura e del Cavallo sar? sempre negletto.

    E? del resto la sorte che tocca agli umili.[/color]

    Neanche un misero cavicchio ha voluto mettere per superare il punto critico della salita. Mentre non disdegna le spalle del compagno per farne scaletta e raggiungere cos? l’appiglio decisivo. Che dire di quest’etica dell’arrampicata? forse il cavicchio era considerato un ausilio artificiale mentre le spalle sono mezzi "naturali" come le rocce cui appigliarsi. Comunque la si pensi: tanto di cappello!

    #5826
    alberto
    Partecipante

    Si tanto di cappello e tanto di cappello a te che hai riportato questo documento di un’alpinista di assoluto valore.
    La piramide umana era un mezzo per superare in modo pulito un corto tratto altrimenti impossibile. L’hanno usata molti anni dopo anche gli scoiattoli di cortina sulla sud-ovest della Cima Scotoni, addirittura salendo sulle spalle del compagno che gi? era in piedi su di una staffa.
    Al monte Bianco c’? chi si portava addirittura una pertica da appoggiare alla roccia, sistema certamenmte non molto pratico.
    Altro sistema per superare tratti in traversata impossibili, senza forare ? stata l’invenzione del pendolo, uno dei primi ? stato Hans Dulfer.

    #5846
    Anonimo
    Ospite

    Ringrazio Bonatti per il cappello. Mi sembra che in fin dei conti, al di l? delle polemiche, gli argomenti che hai portato nelle discussioni recenti siano pi? che fondati e condivisibili. Per rimanere in tema di vie classiche e a proposito di E. Questa, vorrei raccontare il mio ?incontro? con questo grande dell?alpinismo apuano (e non solo).

    Ovviamente non posso aver incontrato Questa di persona, e nemmeno mi dedico a sedute spiritiche. Per? in qualche modo l?andar per monti a ripercorrere itinerari storici ? un modo per entrare in contatto con lo spirito di uomini che nel passato si sono trovati l?, sullo stesso passaggio, provando le stesse emozioni e magari facendosela ugualmente sotto. Questo ovviamente se si rispettano le regole del gioco e ci si attiene (nei limiti del possibile) allo spirito dei primi salitori (ma la cosa non ? cos? semplice). Trovandosi ad affrontare con mezzi simili le stesse difficolt?, pu? capitare di avere la sensazione di sentire ancora le loro voci, le loro imprecazioni, e di vivere le loro stesse emozioni.

    Il mio ?incontro? avvenne circa una ventina di anni fa. Anche allora non arrampicavo molto, e frequentavo prevalentemente le palestre. Avevo fatto anche un po? di vie apuane lunghe (Oppio, pilastro Montagna, Pizzo delle Saette) e varie creste. Avevo sentito e letto dello spigolo Est del Sagro. Sapevo che era un III grado, e che era stato salito da Questa nel novembre 1899 in solitaria. Avevo gi? effettuato una solitaria alla ONO del Pizzo delle Saette e ne ero rimasto affascinato. Decisi cos? di andare a cimentarmi con la cresta Est del Sagro, in una sorta di confronto con gli alpinisti dell’epoca pioneristica. Anche per me si trattava di una salita solitaria a vista, e l’idea era di emulare Questa anche sull’andare slegato. Perplessit? e Paure che mi si affacciavano dentro le fugavo dicendomi: "se ci sono passati un secolo fa con gli scarponi di allora, vuoi che non ci passi io con le Mariacher e il 6a+ nelle dita?". Il programma era di porsi il pi? possibile nelle medesime condizioni che aveva trovato e vissuto Questa. Ma per sicurezza (poich? non avevo intenzione di scomodare qualcuno per farmi venire a recuperare) mi portai un po? di attrezzatura: una corda, l?imbraco e un po? di materiale (martello, chiodi, cordini).

    Gi? nell’avvicinamento, osservando da nord il profilo ardito e severo dello spigolo, cominciavano a farsi sentire Dubbi e Contrasti; "ma sei sicuro ? ma torna indietro! perch? non vai a fare un giro tranquillo?" etc. A questi premurosi e inseparabili compagni (che come testimoni di Geova vanno sempre in coppia) sapevo come rispondere: "intanto arriviamo all’attacco della via, poi ne riparliamo". Giunto all’attacco si presentano le prime difficolt? oggettive. E puntuali si rifanno vivi Dubbi e Contrasti. Anche in questo caso sapevo come rispondere: "intanto superiamo questo passaggio poi vediamo come si presenta il seguito".

    Continuai cos? per un po’. Ma giunto al tiro chiave mi resi conto che le condizioni non sarebbero potute essere equivalenti a quelle affrontate da Questa. Infatti al ben coordinato attacco di Dubbi, Perplessit? e Paure, circa l’opportunit? di affrontare il tiro di III slegato, la mia risposta fu: "ragazzi, ? solo un III, lo ha fatto Questa con i mezzi e le capacit? di allora, cosa volete che sia per chi ? abituato al 6a?". Ma subito dopo pensai: "accidenti! ho usato un mezzo di progressione che Questa non poteva usare n? avere: l’informazione sulle difficolt? e la fattibilit? della salita". Sapevo che si poteva passare e quali difficolt? avrei incontrato, e soprattutto sapevo che io ce la potevo fare, si trattava solo di trovare i passaggi e gli appigli giusti.

    Non ricordo tutti i dettagli della salita. Ricordo che in alcuni punti critici, dove mi chiedevo se era il caso di andare avanti, o dove indugiavo studiando il passaggio migliore, non potei fare a meno di pensare a Questa. Me lo immaginavo da solo, slegato, di fronte a quello stesso passaggio. Non potei non mettermi nei suoi panni: quando part? in solitudine totale di notte dalle valli massesi, e con la non-attrezzatura di allora (perch? imbraco, scarpette, chiodi e martello come li conosciamo noi, non se li immaginava neanche) and? ad affrontare una cresta mai percorsa da essere umano, con salti quasi verticali, con roccia rotta e molta erba.

    Trovarsi davanti a quei passaggi, porsi le stesse domande, magari tentare le stesse vie di uscita, mi fece come rivivere l’esperienza del primo salitore, ma con la grande differenza che Questa doveva cercarsi la linea giusta e sperare di trovare appigli buoni, non poteva sapere quanto sarebbero durate le difficolt? e, ultimo ma non trascurabile particolare, non aveva neanche un chiodo a cui attaccarsi. Per affrontare i suoi dubbi e le sue paure poteva fare affidamento, non a una qualche relazione tecnica o notizia di salita, ma solo alla sua abilit? e alla sua capacit? di valutazione del terreno.

    Superato il tiro chiave tribolai un po’ per il tratto erboso ripido e poi per l’aggiramento di alcuni spuntoni esposti che sembravano poco stabili. Arrivai comunque in vetta abbastanza bene, sfruttando solo appigli naturali e senza momenti di panico. Giunto alla croce la soddisfazione fu enorme, ma pensando a Questa che tutto questo se l’era guadagnato quasi cent’anni prima, con le conoscenze e le tecniche del tempo, in un contesto alpinistico apuano che non aveva mai visto nessuno affrontare simili difficolt?, beh non potei fare a meno di sentirmi un nanerottolo sulle orme di un gigante.

    Da allora il rispetto per gli alpinisti e le imprese del passato, il rispetto per uomini di quel calibro e delle loro vie, non riesco pi? a togliermelo di dosso.

    #5852
    alberto
    Partecipante

    Bergame, bel racconto mi fai rivevere tempi andati.

    Andare ha ripetere una via e mettersi nei panni dei primi salitori cercando di rivevere le loro ansie, le incertezze cercando di entrare nelle loro motivazioni sopratutto se questi sono dei mostri sacri come un Emilio Questa.

    Che epoca bellissima che hanno avuto la fortuna di vivere questi personaggi. Avevano un terreno tutto da scoprire, da esplorare. Perch? l’alpinismo ? anche esplorazione non solo grado.
    Magari partivano a piedi o in bicicletta o al massino con il pulman da Massa e si facevano ore e ore di salita e discesa con bivacchi all’aperto sotto le stelle in totale sintonia con la montagna con l’ambiente. Un’epoca bellissima che avrei voluto vivere.

    #5854
    Anonimo
    Ospite

    Molto interessante questo topic.
    Da qualche parte avevo letto del giudizio di Questa in fondo all’articolo (circa il paragone con l’Aiguille d’Arves), ma il resto non lo conoscevo.
    Ho notato un paio di cose: la prima riguardo all’avvicinamento a dir poco mostruoso, effettuato a piedi e di notte dalla stazione di Massa (si dice chiaramente della partenza alle 22 e dell’arrivo alle 2 del mattino a Resceto, giusto il tempo che ci vuole per fare a piedi quei 13 km di "stradale"), e la seconda riguardo al togliersi le scarpe:

    incominciamo col toglierci le scarpe e col maneggiare la corda…

    Forse arrampicavano scalzi? Pensavo salissero in scarponi…

    A ottobre scorso con Guido e Grazia abbiamo fatto lo spigolo est del Sagro, in scarponi s?, ma con tutto il materiale alpinistico "moderno": e ho pensato a Questa da solo nel 1899, praticamente senza nulla… io il primo tiro di III non me la sentirei mai di farlo slegato, foss’anche con le scarpette…

    #5856
    Anonimo
    Ospite

    Altra cosa che noto, solo su un punto le "profezie" di Questa non si sono avverate: la cresta nordest dell’Alto di Sella (anzi il suo tratto finale; i due terzi inferiori se non sbaglio furono saliti nell’inverno 1973 da una cordata genovese che apr? una durissima via di misto, credo ben poco ripetuta) non ? diventata la via d’elezione per salire su quella vetta, anzi una seppure modesta fama ? rimasta appiccicata solamente alla cresta nord-nordovest.
    Vero, invece, che la sorte toccata all’Alto di Sella ? stata umile, in relazione ai suoi vicini Cavallo e Tambura, molto pi? noti e frequentati. D’altronde, almeno sul Cavallo la qualit? della roccia ? ben diversa…

    #5859
    Anonimo
    Ospite

    davec77 ha scritto:

    Forse arrampicavano scalzi? Pensavo salissero in scarponi…

    Mi son posto anch’io la stessa domanda. Non credo per? che andassero scalzi, pu? darsi che gi? allora esistessero calzature leggere in grado di far presa su appoggi e sporgenze. Se qualcuno ne sa di pi? ci farebbe piacere sapere come stavano le cose.

    A ottobre scorso con Guido e Grazia abbiamo fatto lo spigolo est del Sagro, in scarponi s?, ma con tutto il materiale alpinistico "moderno": e ho pensato a Questa da solo nel 1899, praticamente senza nulla… io il primo tiro di III non me la sentirei mai di farlo slegato, foss’anche con le scarpette….

    Questa oltre a non sapere cosa lo aspettava non aveva neanche un chiodo cui attaccarsi. Io sapevo che avrei trovato chiodi e alla bisogna non li avrei disdegnati. Per sottolineare queste differenze ho rimesso mano in parte al racconto precedente. Nel primo abbozzo avevo dovuto chiudere un po’ bruscamente trascurando alcuni particolari.

    #5863
    alberto
    Partecipante

    davec77 scritto:

    Altra cosa che noto, solo su un punto le "profezie" di Questa non si sono avverate: la cresta nordest dell’Alto di Sella (anzi il suo tratto finale; i due terzi inferiori se non sbaglio furono saliti nell’inverno 1973 da una cordata genovese che apr? una durissima via di misto, credo ben poco ripetuta) non ? diventata la via d’elezione per salire su quella vetta, anzi una seppure modesta fama ? rimasta appiccicata solamente alla cresta nord-nordovest.
    Vero, invece, che la sorte toccata all’Alto di Sella ? stata umile, in relazione ai suoi vicini Cavallo e Tambura, molto pi? noti e frequentati. D’altronde, almeno sul Cavallo la qualit? della roccia ? ben diversa…

    La via invernale di cui parli ? lo Sperone Pomodoro dell’alto di Sella salito dai genovesi Vittorio Pescia e Lorenzo Pomodoro per molti anni una delle vie di misto pi? impegnative della Apuane.
    Purtroppo Lorenzo Pomodoro ? morto d’inverno sul Pisanino.

    #5864
    aleph
    Partecipante

    Mi ricordo di aver letto (ma non ricordo il libro in questione) che Cassin, Castiglioni e mi sembra anche Comici usassero delle pedule leggere con suole di feltro o comunque di un materiale che si usurava molto velocemente, se non ricordo male fu Vitale Bramani (Vibram) che ebbe l’idea di utilizzare la gomma per le suole degli scarponi prendendo spunto da un pastore che aveva applicato dei pezzi di pneumatici agli zoccoli e si muoveva agevolmente in "aderenza" sulle rocce.

    #5865
    Anonimo
    Ospite

    aleph ha scritto:

    Mi ricordo di aver letto (ma non ricordo il libro in questione) che Cassin, Castiglioni e mi sembra anche Comici usassero delle pedule leggere con suole di feltro o comunque di un materiale che si usurava molto velocemente, se non ricordo male fu Vitale Bramani (Vibram) che ebbe l’idea di utilizzare la gomma per le suole degli scarponi prendendo spunto da un pastore che aveva applicato dei pezzi di pneumatici agli zoccoli e si muoveva agevolmente in "aderenza" sulle rocce.

    Vero, per? l’epoca di Cassin e Castiglioni si colloca almeno 30 anni dopo la salita di E.Questa. Da quello che sapevo (mi pare lo dica la guida CAI_TCI) i primi a introdurre le pedule di feltro in Apuane furono i fratelli Ceragioli, appunto negli anni ’30.
    Forse Questa and? davvero scalzo, magari con le scarpe nello zaino?

    #5867
    Tronc
    Partecipante

    davec77 scritto:

    Forse Questa and? davvero scalzo, magari con le scarpe nello zaino?

    Allora dobbiamo immaginare che anche Cervino, Bianco ecc. ecc., ben prima, si siano saliti scalzi?
    Gli scarponi esistevano, magari chiodati e non vibram. I cacciatori, che sulle Alpi sono stati i primi a salire cime per le vie pi? facili, non andavano certo scalzi ? :blink:
    E se magari superevano passaggi ardimentosi in roccia (e lo facevano) di certo non lasciavano scritti, n? facevano notizia. Scalare una roccia era (ed ?) una cosa assolutamente priva di utilit?.
    A me pare eccessiva l’importanza tecnica attribuita a pionieri quali Questa. Il loro principale valore ? nell’essere stati esploratori, precursori, ecc. ecc. pi? che nel rilievo tecnico. Se parliamo di livello tecnico, allora sulle Alpi, pi? o meno in quegli anni, c’erano i Dulfer e i Preuss. Un paio di gradi pi? su…

    #5868
    alberto
    Partecipante

    anche Vinatzer, senza dubbio il pi? forte scalatore degli anni 30 arrampicava spesso scalzo.
    I fratelli Ceragioli di Camaiore sono stati quelli che hanno dato la svolta alla tecnica di scalata in Apuane, con un uso gi? pi? raffinato delle tecniche di assicurazione e progressione , anche se rispetto a quello che in quegli anni veniva fatto in Dolomiti o sulle Alpi e ben poca cosa basti pensare a quando ? stata aperta la via Solleder alla nord ovest della Civetta…se non sbaglio era il 1925!!!!

    #5872
    Tronc
    Partecipante

    bonatti scritto:

    anche Vinatzer, senza dubbio il pi? forte scalatore degli anni 30 arrampicava

    Tra i pi? forti sicuramente. Quando si dice la Vinatzer si sa a cosa si ci si riferisce. Quando dici la Comici non sai a quale ti riferisci. Io la penso come Messner: Comici non ha confronti
    E gli occidentalisti? Mai sentito parlare di un certo Gervasutti? Dello sfortunato Boccalatte, un esteta dell’arrampicata. Facevano il 6a su granito questi signori, ma non lo sapevano, credevano fosse V+ ;-)

    #5875
    Anonimo
    Ospite

    TroncFeuillu ha scritto

    A me pare eccessiva l’importanza tecnica attribuita a pionieri quali Questa. Il loro principale valore ? nell’essere stati esploratori, precursori, ecc. ecc. pi? che nel rilievo tecnico.

    salve Tronc,
    permettimi una battuta (senza offesa): pi? che TroncFeuillu ti dovresti chiamare StroncFeuillu, visto che non ti fai scappare occasione per bacchettare le debolezze altrui :lol: :lol: :lol: (eh si! per il pioniere delle Apuane ho un debole, come per le Apuane del resto, che ci vuoi fare?)

    Il III grado non ? ovviamente un traguardo tecnico. Di E.Q. ho ammirato l?audacia di progettare una solitaria su terreno sconosciuto in un?epoca in cui le solitarie non erano roba di tutti i giorni. Poi durante la ripetizione ho ammirato il coraggio e la determinazione nel concludere una salita che anche oggi, fatta in quelle condizioni, non ? banale. Certamente se la paragoniamo alle pi? celebri solitarie alpine dell?epoca non emerge per il livello tecnico n? per il grado. Basti ricordare due grandi imprese rimaste nella storia dell?alpinismo: la torre nord-est del Vajolet salita da G. Winkler nel 1887, a soli 17 anni, che fu anche una prima salita assoluta oltre che prima solitaria (un vero record), e la salita del Campanile Basso, compiuta da Preuss nel 1911 in puro stile preussiano (senza corda).

    Su questo non hai torto, ma ridurre i meriti di Questa all?ambito esplorativo mi sembra eccessivo. Non sono esperto di storia dell?alpinismo per dare giudizi, ma forse l?unico motivo per cui Questa non figura tra i massimi alpinisti della sua epoca ? che ha dedicato molto tempo ed energie alla scoperta delle Apuane. Questo, come notava lui stesso nella relazione sull?Alto di Sella, non gli dava la notoriet? di altre imprese magari meno impegnative ma pi? blasonate.

    A proposito di scarponi e piedi scalzi … G. Winkler scrisse sul finire dell?ottocento una relazione in cui dichiarava di utilizzare per l?arrampicata pedule di sua invenzione "fatte di tela da vela con suole di corda e canapa?.

    #5876
    alberto
    Partecipante
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