Ernesto Lomasti

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  • Questo topic ha 14 risposte, 4 partecipanti ed è stato aggiornato l'ultima volta 9 anni, 5 mesi fa da adri.
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  • #20454
    alberto
    Partecipante

    prima solitaria al diedro Cozzolino al Mangart.

    Alle 9,30 raggiungo la cengia alla base del tratto chiave sopra l’ignoto! Mi siedo con la schiena poggiata alla parete per scoprire il passaggio che mi respin­gerà o che, chissà, mi vedrà vincitore, ma non riesco a scorgerlo: non vedo nessuno strapiombo pauroso, nessuna placca im­possibile, non c’è più il mistero, è anche questa una parete, un pezzo di roccia come tutti gli altri. Non sento più in me quell’ansia, quel timore, quel nervosismo che provavo prima di giungere qui; mi sento calmo, stranamente calmo, decido di mangiare e di bere qualcosa.

    Riparto, raggiungo il fondo del camino e su roccia viscida monto su un masso incastrato. È giunto il momento di autoassicurarmi. Pianto un chiodo, vi passo un cordino, ma ad un certo momento mi fermo; mi viene in mente quando que­st’anno, da solo, sullo spigolo Deye-Pe­ters mi ero assicurato sul tratto chiave; mi si era incastrata la corda ed ero do­vuto ridiscendere in arrampicata libera a sbloccarla. Mi rimetto a tracolla il cordi­no, estraggo il chiodo e riparto. Ho fidu­cia in me stesso.

    Traverso a sinistra su appigli minimi fino al centro della parete, dove trovo un chiodo; più sopra un secondo ed un terzo: sono di Cozzolino. Sento il sangue correre impazzito nelle vene. Anch?io sono arrivato dove è arri­vato lui. Salgo sicuro fino al terzo chiodo e qui mi fermo: gli ultimi metri del passaggio sono strapiombanti e le fessure cieche e larghe; non si può chiodare. Frattanto anche gli slavi sono allo spiaz­zo ghiaioso; uno si accorge che le mie corde sono libere nel vuoto, senza assicurazione; passa la voce all?altro ed en­trambi mi guardano con gli occhi sbar­rati. Provo due volte il passaggio, quindi lo supero di slancio.

    Ce l’ho fatta! Ho vinto il passaggio, ma non la via. Di questo sono ben cosciente. Non devo lasciarmi trascinare dall’entusiasmo. Due lunghezze oblique verso destra mi portano verso uno strapiombo compatto; mi alzo alcuni metri, ma all’altezza di questo mi ritrovo bloccato. Appigli ed appoggi sono piccoli ed arrotondati; spero che gli scarponi tengano perché con le mani riesco appena a vincere le leggi di gravità. Sono sotto tensione: non vi sono fessure per piantare chiodi, ed anche se vi fossero non potrei disimpe­gnare la mano. Mi rifiuto di pensare ad una possibile caduta; non devo cadere, a costo di aggrapparmi con i denti.

    Vi è un accavallarsi di pensieri nella mia mente: mia madre, i miei amici, la cima, il ca­dere, il morire. Forse ho osato troppo, eppure mi sentivo forte, ma questa forza potrebbe abbandonarmi; devo muover­mi prima che ciò accada. Alzo le gambe in spaccata, stringo i denti e libero in alto una mano, ma non ci sono appigli. Devo provare a battere un chio­do; dopo vari tentativi, riesco a confic­carne uno per un centimetro, ciò che basta ad equilibrarmi; lo afferro con due dita, mi alzo leggermente e afferro un altro appiglio. Tiro il cordino che avevo agganciato al chiodo e questo viene fuori senza la minima resistenza.

    Sono circa a metà della seconda fessura, in una specie di caverna; un largo camino conduce sotto un tetto. Le pareti sono troppo distanti tra di loro e per di più levigate e viscide, poi il camino si chiude a k; lassù potrò progredire in spaccata, ma come arrivarci? Mi alzo difficilmente lungo la parete sinistra, poi non ci sono appigli. Riesco ad infiggere un chiodo a metà, gli scarponi scivolano sugli appoggi. Devo sbrigarmi! Mi getto con entrambe le mani sulla parete opposta del camino facendo pressione con una gamba, alzo l’altra e poso un piede sul chiodo spe­rando che tenga; ora posso mettermi in spaccata. Le gambe sono divaricate al massimo, i legamenti dell’inguine sem­brano doversi spezzare da un momento all’altro. In tale situazione raggiungo il tetto, provo ad uscire a destra, ma la roccia è pericolosa. Batto un chiodo per potermi riposare, ma è impossibile. Riu­nire le gambe significherebbe non riu­scire più ad aprirle. A sinistra la placca è perfettamente liscia, ma il tetto forma con essa una stretta fessura strapiombante ed obliqua: cerco in questa un qualche cosa che mi permetta di toglier­mi da tale situazione. Vi scorgo uno spuntoncino di un paio di centimetri sul quale riesco ad aggrapparmi con la mano sinistra.

    È arrivato intanto nella grotta il primo degli slavi: mi guarda, e storce la testa. Mi prega di lasciargli i chiodi: me li ritornerà poi in cima. Mi sgancio dal chiodo, sposto la spaccata, un piede sulla placca e uno sul bordo del tetto e lascio l’ostacolo sotto di me. In breve raggiungo la terza fessura: seppur difficile, non dovrebbe presentare passaggi estremi. Sento di avere la vittoria in pugno, ma arrampico sempre calmo e concentrato. Verso metà fessura batto un chiodo per superare un ennesimo passaggio ostile. Seppure impegnato, cerco di pensare dove possono aver dormito i primi sali­tori: non c’è proprio niente su cui sedere. Vedo avvicinarsi sempre di più la cengia sotto i tetti, la fine delle difficoltà. Sono stremato dalla sete, sento tra i denti un sapore di terra marcia?

    Dopo otto ore di dura arrampicata, poso i piedi sulla tanto agognata cengia. Mi volto per recuperare le corde: la parete è sotto di me; ho vinto! Un nodo mi gonfia ancor di più la gola; mi siedo, appoggio la testa sulle gambe, gli occhi mi si riempiono di lacrime. Signore ti ringrazio.

    Ero contento perché avevo vinto la parete, ma soprattutto perché avevo vin­to me stesso. Dopo anni di sacrifici e privazioni, avevo raggiunto il mio scopo. Ed ora sono contento come non lo ero mai stato; mai riuscirò ad esprimere a parole questo accavallarsi di sentimenti.

    Giunti alla campagnola guardo per un’ultima volta la parete: il Diedro è sempre lì, il temporale è passato e la luce del sole ne illumina come ieri sera una faccia; è uguale, eppure diverso; vorrei poter tornare indietro. Era per me un mito e ci credevo; ora il mito è infranto, ma io continuerò a crederci.

    #20456
    fabrizio
    Amministratore del forum

    Avvincente!!! :woohoo:

    #20457
    adri
    Partecipante

    Aveva neppure 18 anni quel giorno Ernesto.
    Tante altre grandi imprese compirà nella sua breve vita, una folgore nel cielo dell’ alpinismo
    e una folgore lo porterà via solo due anni piu tardi…
    Un vero maestro per molti .

    Questo è un forum sulle Apuane e allora ricordo la sua salita, sempre in solitaria e con gli inseparabili scarponi della Oppio sul Pizzo d’Uccello.

    Scrive nel suo diario

    “5 Novembre 1978- Pizzo D’Uccello- parete N-Via Oppio Colnaghi.
    In solitaria, altezza 850mt, diff III, IV, IV+. Ore 1
    Buona forma , tempo bello. Bella arrampicata, classica su roccia buona a volte ottima…”

    Grazie bonatti ;)

    #20458
    fabrizio
    Amministratore del forum

    La sua Biografia da Wikipedia

    Infanzia

    Ernesto Lomasti nasce all’ospedale di Udine da genitori residenti a Pontebba. La madre, Luciana Romei, è una pontebbana che lavora presso le Poste. Il padre Marcello, ufficiale degli Alpini, proviene da Firenze da famiglia di ascendenze ungheresi (il cognome Lomastiscs era stato italianizzato durante il Ventennio). Già durante l’infanzia Ernesto dimostra un temperamento timido e tranquillo. Di corporatura esile e per nulla prestante fisicamente, viene soprannominato Cartuccia.[1]

    Comincia a frequentare le montagne in tenera età con parenti ed amici. Come regalo per la licenza di terza media viene condotto in cima al Montasio dalla guida Bruno Contin, che rimarrà una figura di riferimento nella sua attività successiva, incontrando al ritorno l’alpinista che ammira di più, Ignazio Piussi.[1]
    Inizi dell’attività alpinistica

    I suoi esordi alpinistici veri e propri avvengono nel 1974. Con un gruppo di amici di pochi anni più vecchi affronta in maniera improvvisata alcune vie facili (II-III grado) della zona. Contemporaneamente inizia un regolare e metodico programma di allenamento, autoimposto, che in un paio d’anni ne trasformerà il gracile fisico.[2]

    Già l’anno successivo, il 3 agosto 1975, con gli amici Vittorio Di Marco, Sandro Piussi ed Emilio Di Marco, apre una via nuova di III/IV grado sulla Creta di Pricot, nel gruppo del Monte Cavallo di Pontebba/Rosskofel, dedicata a Mario Pesamosca, caduto in montagna. Dello stesso anno è la ripetizione della fessura Comici alla parete nord della Cima di Riofreddo.[3]

    Arrampica anche in inverno, il 5 gennaio 1976 compie ad esempio la prima invernale del monotiro che costituisce la via Tinivella al “Vescovo di Brucken” (torrione di cresta del Monte Bruca che in buona parte crollerà pochi mesi dopo, nel Terremoto del Friuli del 1976). Nella stagione estiva compie diverse ripetizioni, come la Deye-Peters alle Torre delle Madri dei Camosci (della quale compirà la terza solitaria due anni dopo, preceduto solo da Ignazio Piussi ed Enzo Cozzolino), alcune solitarie e la partecipazione all’apertura di due vie di V+ sulla Cresta di Pricot.[4]
    La maturità alpinistica

    Nel 1977 si ha la definitiva maturazione alpinistica di Lomasti. Pur nella carenza di attrezzatura alpinistica e autonomia, non possendendo mezzi di trasporto, mantiene un approccio sistematico e rigoroso, dimostrando altresì una ferma ostinazione nel raggiungimento degli obiettivi che si pone. Tra luglio ed agosto conduce da capocordata l’apertura di vie assai impegnative, dichiarandole di VI grado, come la parete est del Monte Cavallo (con Ceccon, oggi VI+, che ripeterà in solitaria l’anno successivo) e lo spigolo sud dell’inviolata parete della Torre Winkel (con Sandro Piussi, in due ascensioni separate per completare il difficile muro finale). Ripeterà entrambe in solitaria l’anno successivo. Compie inoltre la solitaria alla Deye-Peters e la prima solitaria alla via Piussi sulla Cima del Vallone.[5]

    Convintosi così delle proprie capacità, osa avventurarsi nella prima solitaria (nonché prima ripetizione italiana) al temuto diedro Cozzolino sul Piccolo Mangart di Coritenza, superandolo in giornata. L’impresa gli garantisce un certo eco sulla stampa locale.[5]
    Il settimo grado

    Si tratta delle prime occasioni in cui si spinge oltre il VI grado, ai tempi il massimo grado ufficialmente riconosciuto in arrampicata libera. Il 1977 può altresì essere considerato l’anno della svolta in Europa: Reinhard Karl supera la Pumprisse sulla Fleischbank, nei Monti del Kaiser, ascensione che l’anno successivo verrà accettata come prima salita ufficiale di VII grado nelle Alpi,[6] sebbene fosse già stata preceduta da altri exploit poi riconsiderati superiori al sesto grado.[7]

    Lomasti, utilizzando comunque gli scarponi e non le scarpette da arrampicata, sarà tra i primi ad oltrepassare sistematicamente tale limite, con scarsissime protezioni ed anche in solitaria, malgrado dichiari le sue realizzazioni più estreme VI+.

    L’ennesimo disguido con un compagno di salita, causato dalla sordità da un orecchio che lo affligge dall’infanzia (scoperto solo più tardi e probabilmente dovuto a una caduta), lo convince ad operarsi alla fine di agosto 1977. Dopo solo un mese e mezzo riprende l’attività in montagna. Tuttavia i problemi di salute si ripresentano in forma di labirintite, causata da un’infezione post-operatoria, che lo blocca per mesi.[8]

    Nel marzo 1978 Lomasti apre la sua stagione più feconda con l’ascensione in condizioni invernali della Bulfoni-Perissutti al Pan di Zucchero e con la prima ripetizione, in solitaria, della via da lui aperta sulla Torre Winkler. Seguono una serie di ripetizioni, spesso in solitaria, alcune di rilievo assoluto come la Piussi-Perissutti alla Veunza (prima solitaria) e la prima ripetizione italiana alla via di Piussi sul pilastro Nord del Piccolo Mangart (con De Rovere, Simonetti e Curci). Il 6 agosto 1978 apre con Ceccon sulla nord-est del Monte Cavallo la “via dei Finanzieri”, dedicata a due Fiamme Gialle perite in una slavina.[9]

    Ernesto si sente pronto per un progetto che da tempo cova in mente: una prima ascensione in solitaria sulla parete nord del Piccolo Mangart di Coritenza. Il 16 agosto, portando con sé l’attrezzatura da bivacco rivelatasi superflua, apre una diretta in totale arrampicata libera e usando solo 6 chiodi, con 800 m oggi valutati di V e VI continuo con passaggi di VII-. Nella sua relazione si limita però a dichiarare “difficoltà estreme”.[10]

    In una breve intervista trasmessa al Giornale Radio Rai regionale nel ferragosto 1977 aveva dichiarato che la sua attività solitaria era dovuta anche alla mancanza di un compagno disponibile ad affrontare tali difficoltà.[11] Nella primavera del 1978 ne ha incontrato uno nella palestra di roccia di Illegio. Si tratta del giovanissimo Roberto Mazzilis di Tolmezzo, che ha iniziato ad arrampicare da un solo anno ma sarà considerato tra i migliori alpinisti italiani degli anni ottanta e nominato accademico del C.A.I. nel 1986.[12]

    Con lui costituisce una cordata fortissima che ha il tempo di esprimersi solo su poche vie di alta difficoltà, superate con uso ristrettissimo di mezzi di assicurazione. Il 17 settembre i due compiono la prima ripetizione italiana della Piussi-Bulfon sul Piccolo Mangart, mentre tra il 30 settembre e il 7 ottobre aprono tre impegnative, seppur brevi, vie di placca sulla Creta di Pricot e sulla Creta di Pricotic.[13]

    Hanno però già compiuto l’impresa forse più difficile, superando il 3 settembre l’evidente fessura che solca la strapiombante e marcia parete dell’anticima nord di Cima Grande della Scala. La parete ha già respinto alpinisti illustri come Comici, Piussi e Cozzolino. Caratterizzata dall’impossibilità di ritirarsi dopo un ultimo chiodo a pressione piantato a circa 40 metri di altezza durante i tentativi precedenti e dall’instabilità della roccia, la via viene dichiarata di V e VI, con passaggi di VI+. Luca Vuerich e Massimo Laurencig, che ne hanno compiuto la prima invernale il 13 e 14 marzo 2009, hanno dichiarato difficoltà di VI continuo con passaggi di VIII-, su roccia assai insicura.[14] In nemmeno due mesi i due realizzano sei vie nuove e una ripetizione.[15]
    Il servizio militare e la morte

    Lomasti, superato l’esame di maturità, è in attesa della chiamata di leva. Nel gennaio 1979 viene chiamato a presentarsi alla Scuola Militare di Addestramento Alpino (SMALP) di Aosta e assegnato agli esploratori.

    Comincia così a frequentare per allenamento le rocce granitiche nei pressi di Arnad durante le libere uscite. Il 13 maggio 1979 apre la prima via su un pilastro inscalato della Corma di Machaby, poi chiamato “pilastro degli Esploratori” e oggi “pilastro Lomasti”. Con gli scarponi rigidi ai piedi, assai poco adatti all’arrampicata su granito, assicurato da Enrico Ricchi apre con pochissime protezioni la “via del 94°”, che respingerà i primi tentativi di ripetizione effettuati con scarpette di arrampicata e presenta diversi tiri valutati anni dopo 6a/6a+ obbligatorio nella scala francese.[16]

    Lomasti, tra i migliori del suo corso, rifiuta di entrare nel gruppo sportivo degli Alpini e di rimanere allo SMALP come istruttore. Viene quindi destinato alla caserma “Italia” di Tarvisio, dove il suo arrivo è previsto il 25 giugno. La sera del 12 giugno, caratterizzata da un forte temporale, viene notata la sua mancanza al contrappello. Un gruppo di allievi si reca quindi alla Corma di Machaby, dove Ernesto aveva riferito si sarebbe recato ad allenarsi. Il corpo di Lomasti viene ritrovato alla base della via “Topo Pazzo”. Si ritiene che la caduta sia stata dovuta ad un fulmine. Muore così quello che Piussi ha definito “il più forte alpinista friulano di sempre”.[14] Il funerale si tiene il 15 giugno a Pontebba, seguito da una folla imponente.[17] La sua tomba si trova nel cimitero del paese natale.

    Nel 1979 la sezione CAI di Pontebba installò sulla sella di Aip a quota 1.920 m s.l.m. un bivacco che ne ricorda il nome, le scalate e le imprese.[18]

    #20460
    fabrizio
    Amministratore del forum

    Il libro
    NON SI TORNA INDIETRO
    di Luca Beltrame

    A quattordici anni Ernesto Lomasti è un adolescente che vive a Pontebba, un paesino in provincia di Udine: è già malato di montagna, ma la bassa corporatura non gli frutta altro che il soprannome di “Cartuccia” e la derisione dei compagni. Quando nel 1979, allievo Ufficiale alla SMALP e nemmeno ventenne, cade in una palestra di roccia valdostana nel corso di un misterioso incidente, è ai vertici dell’alpinismo italiano e non solo. Senza saperlo ha raggiunto il settimo grado in solitaria in anni in cui pochi tra i migliori si azzardavano a farlo in cordata. Nel 1977 ripete in solitaria il temibile Diedro Cozzolino sulla parete nord del Piccolo Mangart di Coritenza, sulle Alpi Giulie. L’anno dopo il suo capolavoro sarà una via nuova sulla stessa parete e con lo stesso stile: da solo. “Altezza 800 metri, 10 ore, difficoltà estreme” lascerà scritto nel suo diario; oggi per quella salita si parla di VI+ con passaggi di VII-. La naturale modestia e le eccezionali vie aperte sulle neglette pareti delle Alpi Giulie e Carniche non gli hanno portato né fama né denaro. Solo chi ha arrampicato con lui sa che è stato un fuoriclasse, che ha illuminato come una meteora la storia dell’alpinismo proprio nel cruciale passaggio tra la visione classica e quella sportiva. Questo libro ne ricostruisce la vita, le speranze, le imprese.

    LUCA BELTRAME

    Nato a Udine nel 1970, è laureato in Economia Aziendale all’Università di Venezia. Folgorato sulla via di Damasco dalla rivelazione alpina all’età di 27 anni, inizia a dedicarsi anima e corpo alla nuova passione. In dieci anni di attività passa dall’escursionismo all’alpinismo, effettuando più di 600 salite di varia difficoltà. Ha al suo attivo due nuove vie ed ama definirsi un alpinista esplorativo perché si perde spesso . Collabora con alcune riviste di settore tra cui Le Alpi Venete (rassegna semestrale delle sezioni trivenete del CAI) ed In Alto (annuario della Società Alpina Friulana). Nel corso dell’esperienza quadriennale a Pontebba, quale Responsabile di Filiale nel principale istituto di credito della sua regione, riesce ad inserirsi nell’ambiente sociale ed alpinistico del paese, al punto di realizzare un sogno: la biografia del più grande alpinista friulano di sempre.

    CDA&VIVALDA Editori

    Via Invorio, 24/a

    10146 Torino

    http://www.alpmagazine.it

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    #20472
    Enzo
    Partecipante

    Purtroppo anche Luca Beltrame è morto in montagna: un paio d’anni fa, mi pare, sulla grande Vergine nelle Giulie.
    Enzo

    #20473
    alberto
    Partecipante

    Adri ;) non c’è di chè . Mi ha sempre affascinato la figura di Lomasti.

    Sapevo della sua solitaria alle Oppio, dalle Giulie alle Apuane nel 1978 ci vuole tanta curiosità. Ma i grandi ne hanno da vendere.
    Curiosità di luoghi, di pareti, di vie ma anche di vedersi dentro per confrontarsi con la montagna e con se stessi.

    #20477
    alberto
    Partecipante

    Cima della Scala parete nord “Fessura Lomasti-Mazzilis”

    Attachments:
    #20478
    adri
    Partecipante

    Questa parete alta 500 mt e strapiombante per la prima metà era gia stata tentata da alpinisti del calibro di Gilberti, Comici, Piussi e Cozzolino , tutti respinti dopo i primi 40 metri. La fortisiima cordata dei due ragazzi riesce al primo tentativo creando un capolavoro di intensità e coraggio.
    Nel corso della ascensione Lomasti supera un passo improteggibile che sarà valutato poi dai ripetitori nell’ ordine dell’ ottavo grado inferiore… nel 1978 e con gli scarponi ! Da una frase pronunciata quel giorno nasce il titolo del libro dedicato ad Ernesto , rivolto al compagno di cordata disse ” E poi non si torna indietro.. ” Di questa salita è diventato famoso e leggendario il particolare della richiesta di Lomasti a Mazzilis di slegarsi dalla sosta precaria per non cadere entrambi in caso di volo. Quella corda non fu mai sciolta. :)

    #20479
    alberto
    Partecipante

    …”quella corda non fu mai sciolta”.

    La corda ci unisce, nel bene e nel male. La cordata affronta unita i pericoli, le difficoltà. L’unione fa la forza: forza tecnica, fisica ma anche psicologica, morale.
    Se Mazzilis si fosse sciolto a Lomasti sarebbe venuto a mancare la fiducia del compagno che si trasforma in carica positiva e magari non avrebbe avuto la determinazione necessaria per superare quel tratto estremo e pericoloso.
    La forza di una cordata è anche questo.

    #20480
    fabrizio
    Amministratore del forum

    Questo era il “Centro della discussione” che doveva essere trovato al convegno di H. Grill e non uno spot (per alcuni si intende)

    #20481
    alberto
    Partecipante

    mi sarei dovuto alzare e fare un intervento. Così i teutonici… avrebbero visto di cosa sono capaci di provare ed esprimere gli alpinisti terroni…
    :laugh:

    #20482
    fabrizio
    Amministratore del forum

    :laugh: :laugh: :laugh: Finiva in rissa…. e per noi “terroni” era un guaio…eravamo in tre contro tutti :laugh: :laugh: :laugh:

    #20484
    alberto
    Partecipante

    SUL MANGART UN ALTRA VOLTA

    L’indomani lascio l’ospedale; l’infezione è spenta, ma l’equilibrio non ce l’ho più. In paese mi vergogno ad uscire perché rischio di cadere da un momento all’altro. Ma ora basta, sono stufo! Mi infilo la tuta e vado a correre lungo il sentiero che frequentavo negli allenamenti prima della malattia. Faccio due passi, cado, mi rialzo, torno a ricadere e mi ritrovo con la testa nella neve, sento che il cuore mi scoppia; ritorno a casa pieno di botte e barcollante. Ma l’indomani riprovo con due bastoncini da sci, per riuscire a mantenere l’equilibrio.

    Alla fine della settimana riesco a riprendere gli allena­menti come un tempo. Ho paura, ma riprendo ad arrampicare, dimenticando lo studio; devo vincere me stesso, decido di ritornare in montagna.

    È il 12 marzo 1978 e insieme ad Emilio mi trovo all’attacco delle prime rocce del Pan di Zucchero. Sono emozionato come dovessi fare un esame di scuola, ma ho molta più paura. Non ho problemi di equilibrio ma, appena arrivato in cima, mi ritornano. Comprendo quindi che ora, dopo aver vinto la malattia, devo vincere me stesso. Devo superare quei limiti che avevo raggiunto lo scorso anno. E il 28 di marzo e con le pelli sotto gli sci risalgo il vallone del Winkel diretto al­l’attacco della Torre omonima: voglio ripetere la via aperta assieme a Sandro lungo lo spigolo sud, che presenta due tratti con difficoltà estreme, non superabili con mezzi tecnici; è un gioco con regole fisse, non potrò certamente bara­re…

    Mi sento solo, senza poter contare su nessuno; le uniche parole le scambio con la macchina fotografica che si inceppa spesso e volentieri. Rocce di media diffi­coltà mi portano alla base della fessura di quindici metri, primo tratto chiave della salita. In tutta la lunghezza, lo scorso anno ero riuscito a piantare un solo chiodo che, conficcato a metà, aiuta a mala pena a mantenersi in equilibrio; di un volo, neanche a parlarne. In spaccata raggiungo il chiodo e lì mi fermo. Potrei tornare indietro, ma non voglio; devo riuscire a vincere questo momento.

    Ab­bandono il chiodo e con esso l’ultimo legame con la vita. Centimetro dopo centimetro, mi innalzo verso il termine della fessura con i muscoli ed i nervi tesi al massimo e raggiungo finalmente la fine. Ce l’ho fatta! …

    La mia attività riprende così senza ostacoli e da solo ripeto anche la via sulla parete est del Monte Cavallo, finora la più difficile del gruppo. Alla fine di maggio salgo ai Laghi di Fusine con il binocolo. La parete nord della Veunza è pulita. Ignazio e Perissutti l’avevano superata nel ’56, reputandola superiore alla Lacedelli alla Cima Sco­toni. Io la salgo da solo il 7 giugno ’78, partendo al mattino presto da casa. An­che questa volta ci sono riuscito. Il giugno di quest’anno dovrebbe essere per me un mese speciale, perché a luglio ho gli esami di maturità. Nonostante ciò, ogni tanto devo scappare: tante cime, tante vie tutte da solo. L’esame mi va bene ed il mio pellegrinaggio tra i monti continua.

    Decine e decine di salite con un solo scopo. Ho in mente un progetto che svelo solo ai veri amici: salire la parete del Piccolo Mangart in solitaria per una nuova via. Emilio non crede alle sue orecchie; Attilio e Luigi invece sono sicuri che ce la farò. È ferragosto, gior­nata di festa e di divertimento; in paese la gente pensa a come passare la serata, io penso a come passerò la notte. Sono circa le sette quando, in quattro, raggiungiamo i prati sotto al Piccolo Man­gart. Al contrario di quanto avessi cre­duto, sono calmo, stranamente calmo…

    Alle prime luci del giorno saluto l’ami­co ed attacco le prime rocce, circa set­tanta metri a destra del fondo del gran Diedro. La roccia è compatta e sono costretto, causa le difficoltà, a recuperare il sacco reso pesante dall’attrezzatura da bivacco. L’itinerario si svolge esatta­mente come avevo previsto ed in poche ore riesco a raggiungere la cengia a metà parete. Ormai ogni contatto con l’amico è rotto, poiché la voce si disperde nell’aria. Fin qui ho battuto solamente un chiodo, benché la fessura del tratto sottostante si sia rivelata di ordine estremo; e tale è anche il camino sovrastante, così stretto da farmi progredire a forza di respiri e con la testa girata perché il casco non si incastri. Il recupero del sacco mi infastidisce assai, perché si incastra spesso e le braccia sono stanche. Il colatoio supe­riore si rivela come la maggiore difficoltà della via; sono costretto a piantare cin­que chiodi per superare altrettanti stra­piombi estremamente difficili. Verso la fine sono esausto; un’ultima fessura strapiombante e sono nel colatoio al termine delle difficoltà. Rivedo quella cengia sulla quale ero uscito un anno fa dal gran Diedro; recu­pero per l’ultima volta il sacco, la vista mi si annebbia, ho gli occhi lucidi. Ora sul Piccolo Mangart c’è una nuova via, estremamente difficile, tutta mia, non per egoismo ma per orgoglio…

    Più tardi, a Camporosso, di fronte ad una pizza e tanta birra, rischio di avere nuo­vamente problemi di equilibrio ed anche gli amici hanno gli stessi sintomi; ma siamo sicuri: non è più labirintite.

    #20485
    adri
    Partecipante

    Queste due vie che ha citato bonatti sono di certo i suoi capolavori ma scarsamente riprese, due sole ripetizioni in 38 anni la nord della Cima Grande della Scala, piu frequentata la via al Piccolo Mangart ma sempre relativamente, forse una salita ad andar bene ogni due- tre anni.
    Le sue classiche si trovano altrove, nella alpi Carniche ed in gran parte sulla sua montagna di casa , il gruppo del monte Cavallo di Pontebba.
    Le piu note sono la Mirta all’antecima della Creta di Pricot, la via dei Finanzieri alla nord est del monte Cavallo, la Lomasti Ceccon alla est del Cavallo e lo spigolo sud della Torre Winkel.
    Tutte vie con diff comprese tra il Vi- ed il VII- e ripetute per la loro bellezza tecnica ed estetica e non per ultimo per l’idilliaca atmosfera del luogo, tutte affacciate sullo splendido vallone del Winkel.

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