VERSO UN NUOVO MATTINO

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  • #27606
    alberto
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    Un nome ricorre, protagonista indiscusso, nel libro di Enrico Camanni Verso un nuovo mattino La montagna e il tramonto dell’utopia (Laterza «i Robinson/Letture», pp. 256, euro 18,00), ed è quello di Gian Piero Motti.

    Tutti gli altri – e sono numerosi gli attori che popolano i «nuovi mattini» di Camanni – sono autorevoli comparse: a parte Reinhold Messner, noto al grande pubblico, le altre sono figure che raccontano epoche intere agli addetti ai lavori – da Casarotto a Comino, da Manolo a Grassi, da Profit a Gogna – ma che poco dicono a lettori meno navigati.

    Perché allora dedicare un libro intero a una lunga storia, a una parabola fatta di luoghi, nomi, pareti, oggetti, avventure e tragedie che tanti ricordi ed emozioni risvegliano in alcuni, ma che nulla significano per altri?

    Questa è la scommessa dell’autore: voler raccontare un’epoca, che va dagli inizi degli anni Settanta fino all’altro ieri, attraverso la lente di un alpinista-giornalista torinese, incrociando questo lasso di tempo che corre da un’alba a un tramonto con alcuni momenti chiave della nostra storia recente: dall’assassinio di Guido Rossa al rogo del cinema Statuto, all’assassinio di Moro, John Lennon, fino ad arrivare a Berlusconi e al Nobel di Kosterlitz.

    Ma chi era Gian Piero Motti? Forse un «fallito», come lui stesso aveva scritto coniando nel titolo di un suo articolo questa controversa definizione per la categoria di alpinisti cui apparteneva. Fallito al punto da decidere di togliersi la vita, lasciando un enorme vuoto, un tale silenzio dietro di sé che ancora oggi Camanni sente il bisogno – e non è la prima volta – di riprenderne le fila.

    Ma sicuramente Motti era anche l’ispiratore e l’interprete di un nuovo modo di andare in montagna, o forse sarebbe meglio dire di andare in verticale, in parete, verso avventure senza conquiste né vette, di quel movimento insomma che venne poi riassunto col termine di «nuovo mattino» e cambiò per sempre il volto dell’alpinismo.

    L’infinita passione per la montagna lo aveva portato – forse con sulle spalle il peso di un Sessantotto non vissuto appieno nelle strade e nelle lotte sociali – a considerare l’alpinismo come una forma di alienazione dalla realtà, una fuga dalla società, un’attività per «falliti» appunto. E per questo aveva cercato di spogliarla da qualsiasi enfasi eroica per ricercarne un volto umano, leggero, scanzonato. In una parola libero.

    «Vorrei che su queste pareti potesse evolversi quella nuova dimensione dell’alpinismo spogliata di eroismo, impostato invece su una serena accettazione dei propri limiti, in un’atmosfera gioiosa, con l’intento di trarre come in un gioco il massimo piacere possibile da un’attività che finora pareva essere caratterizzata dalla sofferenza». Sono le sue parole. È una svolta.

    E così, verso la fine degli anni Settanta, in Italia, l’alpinismo si scioglie, si libera, trasgredisce e vola con incredibili exploit verso l’alto, verso orizzonti e risultati inimmaginabili fino a pochi giorni prima.

    Ma allo stesso tempo, quella che era un’arte per pochi eletti, si trasforma, si massifica e diventa sport. Una trasformazione che coglie quasi di sorpresa i protagonisti del Nuovo mattino, che partorisce un figlio, l’arrampicata sportiva, che loro non riescono a riconoscere.

    «Il tempo della ribellione – scrive Camanni – è stato fulmineamente superato da quello dello sport, anche se uno sembra figlio dell’altro e osservando i due fenomeni li diresti della stessa famiglia. Non è cosi. I giovani hanno già altri modelli, altri riferimenti. E a tagliare definitivamente il cordone ombelicale con l’alpinismo arriva un oggetto concreto, lo spit, il chiodo a espansione».

    «Se per l’alpinismo eroico il fine era la vetta e il Nuovo mattino inseguiva la via-vita in parete, ora gli atleti puntano alla difficoltà, la loro cima è il grado massimo».

    In sintesi, scrive ancora Camanni, «l’avventura è per pochi, lo sport è per tutti».

    Il Nuovo mattino combatteva l’eroismo della vetta con un romanticismo ribelle, mantenendo un legame con la storia che l’aveva preceduto; invece «tra arrampicata sportiva e alpinismo tradizionale non c’è alcun dialogo. Solo muri».

    Motti denunciò la morte del Nuovo mattino spiegando come lo spit rappresentasse il trucco, il colpo basso con cui si concretizzava la vittoria del muscolo sulla fantasia. Un tradimento. E ciò che lo addolorava ancora di più era che i vecchi segnali di guerra, «le braghe di tela e le fasce nei capelli», sorridano al mercato dello sport, che ricambia il sorriso e fagocita immediatamente i giovani consumatori.

    L’anticonformismo diventa omologazione e così si chiude il cerchio: dall’alpinismo eroico, alla trasgressione, allo sport. Con nuove regole. Altro non è che un gioco per tutti, con regole democratiche.

    E adesso? Adesso si è aperta l’epoca degli «scalatori del pomeriggio», secondo la riuscita definizione di una sua interprete, Eva Grisoni, nata nel ’77: «Potendo fare di tutto, decidiamo soprattutto di fare quello che ci piace, che ci diverte».

    Veramente bello questo libro di Camanni. LEGGETELO!!

    #27607
    alberto
    Partecipante

    dal capitolo: NOCCIOLINE

    Lo scozzese porta abilità e aggeggi ignoti ai piemontesi. (…) L’ultimo giorno di marzo del 1973, insieme a Gian Piero Motti, Kosterlitz scala il diedro centrale della Torre di Aimoin senza piantare chiodi. “Scherzi da prete” pensano quellli della seconda cordata, “pesce d’aprile!”, finchè Kosterlitz e Motti mostrano dei misteriosi blocchetti metallici chiamati “nuts”, NOCCIOLINE” …(…) .

    dal capitolo: Grundal

    (…) Conosciamo la storiella dei nut e ci scherziamo su. Dev’essere stato divertente quando Mike ha nascosto il martello per dire ai testoni piemontesi che non servivano i chiodi. Adesso è tutto scontato, sette anni fa era una magia. (…)

    dal capitolo: Tempi duri.

    “Io provo di qui!” , urlo.
    “Sei sicuro”?”
    “No.”

    In fondo siamo venuti per questo. Il sale dell’alpinismo è la possibilità di sbagliare strada; l’avventura sta nel cercare senza conoscere. La montagna resta un posto assai incerto, che ci parla continuamente di fallibilità.

    “Sei a posto?”
    “Si”
    “Dammi corda che continuo”. (…)

    #27646
    alberto
    Partecipante

    «Il tempo della ribellione – scrive Camanni – è stato fulmineamente superato da quello dello sport, anche se uno sembra figlio dell’altro e osservando i due fenomeni li diresti della stessa famiglia. Non è cosi. I giovani hanno già altri modelli, altri riferimenti. E a tagliare definitivamente il cordone ombelicale con l’alpinismo arriva un oggetto concreto, lo spit, il chiodo a espansione».

    «Se per l’alpinismo eroico il fine era la vetta e il Nuovo mattino inseguiva la via-vita in parete, ora gli atleti puntano alla difficoltà, la loro cima è il grado massimo».

    In sintesi, scrive ancora Camanni, «l’avventura è per pochi, lo sport è per tutti».

    veramente interessanti queste 3 riflessioni di Camanni.

    #27647
    Lorenzo1
    Partecipante

    [b]In sintesi, scrive ancora Camanni, «l’avventura è per pochi, lo sport è per tutti».[/b]

    Come dargli torto!!!!

    #27648
    malatesta
    Partecipante

    Ciao Lorenzo
    se sei interessato ti passo”falliti e altri scritti” di Gian Piero Motti
    son roveno
    saluto

    #27649
    Lorenzo1
    Partecipante

    Ciao Roveno! E via su passamelo che gli do un’occhio……

    #27650
    alberto
    Partecipante

    Lorè, leggilo questo libro è molto interessante.

    #27651
    Lorenzo1
    Partecipante

    Basta che non siano troppo impegnativi e che si leggano bene, sennò rischiano di prendere la muffa…..

    #27652
    alberto
    Partecipante

    [quote=”Lorenzo1″ post=28605]Basta che non siano troppo impegnativi e che si leggano bene, sennò rischiano di prendere la muffa…..[/quote]

    impegnativo è Guerra e Pace.

    Leggere di Kosterliz di Danilo Galante, del Mucchio Selvaggio. Della filosofia di Motti.
    Del diedro Nanchez, della via della Rivoluzione, di Itaca nel Sole.
    Della spensieratezza degli anni giovanili sulle rocce ma anche dellla morte che ti riporta alla cruda realtà.
    Della fine di un sogno perchè prima o poi tutti si diventa grandi. Non è impegnativo è esaltante :)

    #27653
    Lorenzo1
    Partecipante

    E allora mi daro’ all’esaltazione……dopo pero’ t’arrangi è!

    #27655
    alberto
    Partecipante

    [quote=”Lorenzo1″ post=28607]E allora mi daro’ all’esaltazione……dopo pero’ t’arrangi è![/quote]

    LEGGI !!

    1975. Sulla rivista del CAI UGET di Torino “Liberi Cieli” leggo un ricordo di Danilo Galante scritto dal suo amico Antonio Sacco.
    Rimango molto colpito dalla morte di questo forte arrampicatore. Sarà che siamo quasi coetanei, sarà che a forza di leggere relazioni sulle varie riviste del Cai delle vie estreme da lui realizzate lo avevo “mitizzato”, insomma, anche se non avevo quasi mai arrampicato lo ritenevo un “duro”, un’alpinista da imitare.
    Ora, questo ricordo di Antonio mi svelava un po’ della personalità di Danilo, ragazzo che non avevo mai conosciuto ma che in cuor mio avrei voluto veramente conoscere e frequentare. Il motivo ?
    Perché leggendo le relazioni sulle vie aperte di recente in valle dell’orco da Danilo e dai suoi amici mi sembrava che fossero tutti degli eroi. Si sa che a 20 anni è facile farsi dei miti.
    Qualche anno dopo, chiesi a Gian Carlo Grassi come era andata, insomma, volevo sapere come un ragazzo atletico e nel pieno del vigore potesse morire in quel modo.
    Gian Carlo, non mi mandò a stendere, mi rispose in modo cortese senza entrare nei dettagli, ma mi disse che secondo lui Danilo era debilitato da una forte cura di antibiotici che stava facendo per contrastare un’infezione ai denti. Le voci che alcuni avevano messo in giro, su spinelli o qualcos’altro di più forte erano tutte balle. Quando arriva la bufera, in montagna si può morire anche a quote non elevate.
    Negli anni successivi alla sua morte, decine sono stati gli articoli scritti per ricordare Danilo, qui di seguito troverete un pezzo di un’ articolo scritto da Manera per la rivista Scandere del 1989, e un racconto di fantasia scritto da Gogna nel 1983 per il suo libro Rock Story. Due modi diversi per rendere omaggio ed onorare una profonda “amicizia”.
    Le vie aperte da Danilo sono quasi tutte di un livello estremo, aperte con destrezza e molto, molto coraggio, pensiamo all’attrezzature in uso in quel periodo, e sono vie apprezzate anche a livello Internazionale, in valle dell’Orco a ripetere i suoi capolavori venivano e vengono arrampicatori da tutto il mondo.

    Scandere 1989 – Club Alpino Italiano- Sezione di Torino.
    IL “ Nuovo Mattino” di Ugo Manera.

    ….Nell’ambito della Scuola Gervasutti, tra gli anni 1972 e 1973, balzò in evidenza tra gli allievi un giovane studente: Danilo Galante.
    Era un ragazzo dal fisico di atleta con poca voglia di studiare ma molta di arrampicare; si distinse subito per la sua intraprendenza e per la predisposizione all’arrampicata su roccia.
    Già nella primavera del 1973 ci trovammo accomunati in una bella avventura su una salita molto impegnativa per quei tempi: il pilier Leprince-Riguet sulla parete di Glandasse in Vercors.
    Con Motti avevo scelto questo obiettivo nella sistematica esplorazione delle grandi pareti calcaree francesi iniziata tra il 1971 ed il 1972. A noi si unì Grassi che ritornava alle grandi vie dopo la parentesi della malattia, con lui c’erano Danilo Galante ed un altro giovane, Antonio Sacco. Gian Carlo, che aveva pernottato in un luogo umido e freddo, arrivò all’attacco della parete indisposto e dovette ridiscendere così i due ragazzi ncora allievi della scuola, formarono cordata indipendente dietro di noi e superarono in modo brillante il difficile pilastro.
    Galante con la sua esuberanza fisica era portato all’arrampicata di stampo atletico ed era molto sensibile a tutte le novità che l’arrampicata su roccia proprio in quegli anni cominciava ad offrire.
    Fu il primo che io ricordo ad arrampicare costantemente con le pedule a suola liscia ( allora esisteva solo il modello P.A. ).
    Grassi, nel suo primo e difficile periodo di montagna totale, legò subito con Danilo dando inizio ad una profonda amicizia e ad una collaborazione alpinistica che se non fosse stata stroncata dalla morte di Danilo avrebbe certamente lasciato una traccia importante nel panorama dell’alpinismo italiano. Finita con il 1973 la scuola di alpinismo iniziò per Galante un intenso periodo di attività d’arrampicata; attorno a lui si formò un gruppo di giovani animato oltre che dal comune interesse per le scalate anche da spiccate tendenze contestatrici e trasgressive. Tra questi il più rappresentativo si dimostrò Roberto Bonelli mentre si evidenziava per la sua collocazione politica Piero. Pessa proveniente da una impegnata esperienza sindacale maturata negli anni di massimo potere del sindacato con i celebri “autunni caldi”, seguiti al ’68. Tutti gli altri vivevano per lo più all’ombra di Danilo e, almeno alpinisticamente parlando, non hanno lasciato molto. Ebbi l’occasione di trascorrere due giorni interessanti con Galante, Bonelli e Pessa nel giugno 1974. C’era una salita che da tempo stava a cuore a Motti ed a me: il grande pilastro della Croix de Tete nella Valle della Maurienne francese; programmammo un tentativo ed a noi si unirono Galante, Bonelli e Pessa. Non portammo a termine l’ascensione causa il sopraggiungere della poggia a circa metà pilastro, ma fu per me comunque un’esperienza interessante in compagnia di quei giovani che interpretavano la società, il lavoro e l’alpinismo in modi molto diversi dai miei.
    Soprattutto mi incuriosì Bonelli che vedevo per la prima volta e che mi apparve subito fatalmente indirizzato a seguire, costi quel che costi, le sue idee non ragionate ma istintive.
    Il gruppo di cui Galante si proponeva come indiscusso leader portava senz’altro degli impulsi nuovi nel ondo dell’arrampicata sia sul piano della concezione della via, e lo dimostrano le vie all’Orrido di Foresto e al Sergent, che sul piano tecnico: furono i primi a convertirsi radicalmente oltre all’uso della pedula a suola liscia , alle protezioni alternative ai chiodi (blocchetti ad incastro, eccentrici, ecc.). Più difficile da inquadrare il loro indirizzo nei confronti dell’alpinismo oltre i limiti della “falesia” anche perché di tale alpinismo non ne praticarono molto.
    Ciò che a mio avviso caratterizzò maggiormente quel gruppo fu però l’atteggiamento di trasgressione generalizzata. Non si può neanche trovare l’aggancio di tale atteggiamento ad una proiezione del ’68 ormai lontano perché i maggiori esponenti, Galante e Bonelli, non manifestavano certamente indirizzi legati a movimenti di estrema sinistra seguiti al ’68, semplicemente erano portati a trasgredire le regole comini. Per esempio uno dei punti di onore sbandierato sempre dall’alpinismo ufficiale era l’assoluta sincerità dello scalatore tipo nel dichiarare le proprie salite.
    Galante, almeno in un caso, trasgredì in modo provocatorio a questa regola. Era l’agosto 1974, mi ero allontanato dal Monte Bianco coperto di neve fresca, per compiere una “prima” nel Gran Paradiso. Quando tornai a Courmayeur incontrai Danilo e compagni nel corso della consueta passeggiata tra il negozio di Gobbi e la casa delle Guide; si informò sulla mia salita e mi comunicò in modo un po’ provocatorio che due giorni prima lui e Bonelli avevano salito in solitaria, rispettivamente le vie Mayor e Poire sulla parete della Brenva ripetendo l’impresa di Bonatti e Mauri di parecchi anni prima. Emerse in seguito che queste salite erano pura invenzione ma sono convinto che l’affermazione non veritiera non aveva come fine l’acquisizione di gloria alpinistica ma semplicemente rappresentava una forma di trasgressione provocatoria alle regole dell’alpinismo convenzionale. Comparve per questi giovani l’appellativo di “ Mucchio Selvaggio” coniato probabilmente da Andrea Gobetti che solo saltuariamente faceva parte del gruppo in quanto da parte sua la pratica dell’arrampicata e dell’alpinismo era modesta.
    In quel periodo incontrai proprio Gobetti con un braccio al collo; alla mia domanda rispose che era il frutto di una allegra serata da “Mucchio Selvaggio”. Durante una cena Gobetti, forse un po’ bevuto, aveva rivolto qualche complimento alla ragazza di Bonelli, quest’ultimo aveva ritenuto di rispondere con un bottiglione di vino scaraventato sulla testa . Gobetti per proteggere il capo sollevò il braccio, il bottiglionr si ruppe e gli causò una profonda ferita alla mano. Sempre relativamente a quel gruppo correva voce nel nostro ambiente, che non fosse disdegnato qualche episodio do “ spesa proletaria” per procurarsi benzina, bevande e altri generi di consumo.
    Al di là di questi coloriti episodi del “Mucchio Selvaggio” Danilo Galante era un arrampicatore molto forte e senza la sua prematura scomparsa certamente lo avremmo trovato tra i protagonisti nella rivoluzione dell’arrampicata libera sportiva dei primi anni ’80.
    Con il 1975 si chiude quell’importante fase dell’alpinismo torinese durata quasi dieci anni. Danilo Galante muore al Gran Manti ed il gruppo di giovani che lo riconosce come leader lentamente si disgreda.

    #27656
    Lorenzo1
    Partecipante

    Sono pagine di storia, pero’ vedi come son scritte bene e si fanno leggere altrettanto bene…??? E’ questo che volevo dire prima…..tanta storia, tanta cultura ma scritta in modo che si possa leggere scorrevolmente….e che quindi non rimane il classico malloppone scolastico.

    #27657
    alberto
    Partecipante

    [quote=”Lorenzo1″ post=28609]Sono pagine di storia, pero’ vedi come son scritte bene e si fanno leggere altrettanto bene…??? E’ questo che volevo dire prima…..tanta storia, tanta cultura ma scritta in modo che si possa leggere scorrevolmente….e che quindi non rimane il classico malloppone scolastico.[/quote]

    vai sereno Lorè , Camanni scrive molto bene si legge altrettanto bene.

    E questo suo recentissimo libro invita a ragionare su tante cose sul mondo della montagna e dell’arrampicata.
    Non c’è nulla di scolastico.

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