Franco Piana alpinista genovese

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    alberto
    Partecipante

    Un Alpinista “fuori serie”
    Ricordo di Franco Piana a 25 anni di distanza dalla sua scomparsa sull’Everest

    1° Settembre 1979: in artificiale durante la 1^ salita della Via Silvia – pilastro SE del Baus m 3067 (Alpi Marittime)
    (Neg. G.Noli)

    Salvatore Gargioni

    Anni ’60: Franco Piana ventenne in una delle sue prime escursionsulle Alpi (neg. Fam. Piana)

    Qualche tempo addietro un amico mi segnala una trasmissione televisiva dove si racconta di una spedizione all’Everest che si propone esperimenti di fisiologia in alta quota. Mi raccomanda un’attenta osservazione. Cerco da altri amici una registrazione. Vi si illustrano tutte le difficoltà, i pericoli legati all’altezza e alla fatica nonché l’alta mortalità di chi tenta questa montagna dimostrando l’asserto con la visione abbastanza insistita e particolareggiata di cadaveri e resti umani. Siamo a 7000 m circa, alcune centinaia di metri sotto le famigerate “Fasce Gialle”. Il commentatore si sofferma su un’immagine, agghiacciante per chi come noi cerca inconsciamente qualcosa, e nota che l’abbigliamento è caratteristico degli anni ‘80. Facciamo un po’ di conti. In quel periodo a 7300 m di quota è morto solo Franco. Il ghiacciaio potrebbe essersi incaricato del tragitto. La scarpetta di cuoio in primo piano è uguale a quelle della spedizione che si possono ben veder sul libro (N.d.R. -“a due passi dalla cima”- libro ufficiale della spedizione italo-nepalese “EVEREST ‘80” -Mestre (VE) 1980) e anche la camicia a quadri è dell’epoca e assomiglia a quella delle ultime diapositive. La battagliera madre di Franco è già scomparsa altrimenti il rancore per la montagna, per l’alpinismo e per molti alpinisti che nella sua ingenuità considerava i colpevoli istigatori, avrebbe scatenato, a quella vista, una guerra. Io non ho più riavvolto il “nastro” di quella trasmissione! Franco è probabilmente l’unico italiano scomparso su questa montagna. Potrà sembrare un’esagerazione ma a distanza di 25 anni non riesco a parlare di Franco senza una profonda emozione, senza un acuirsi del senso di vuoto che ha lasciato nel ristretto gruppo di persone – l’amicizia aveva superato i rapporti che nascono in montagna in cui si era inserito divenendone un riferimento. La mia incostante e diluita frequentazione dell’alpinismo mi ha forse “statisticamente” allontanato dal novero di tragedie vissute da altri, più assidui.

    Franco è stato per me l’unico amico ed alpinista veramente vicino, scomparso in montagna (anche se non posso dimenticare Gianni Calcagno, Lorenzo Pomodoro ed altri.): la moltiplicazione di tragedie anestetizza o io esagero? Un giorno scrissi per un’altra occasione.
    La memoria, ricordi in potenza. I ricordi, memoria in atto.

    La morte,
    diaclasi che la memoria non riesce a colmare.
    I ricordi,
    vividi, improvvisi, che ti assalgono,
    e per un attimo,
    sembrano superare la morte.

    È questa sensazione che mi perseguita perché il ricordo è acuizione della mancanza e ad un tempo rivitalizzazione. Lo scriverne comunque asseconda. Scriverò ancora una volta di Franco, non tentando una biografia ma solo evocando una serie di immagini tratte dal libro dei ricordi, così vivi che spero illuminino la personalità senza pensare di esaurirla.

    Inevitabilmente parlando di quelle persone con le quali ha percorso una parte importante della vita, così ben suddivisa peraltro in comparti non del tutto comunicanti: la famiglia e il mondo contadino dal quale proveniva e che “coltivava” con particolare riguardo come l’angolo dell’orto dedicato ai suoi fiori; il lavoro e l’ambiente della fabbrica con le problematiche sociopolitiche che lo tormentavano e dove trovò in Guido Rossa una formidabile spalla; la montagna con gli amici di Bolzaneto e quella delle spedizioni con il CAI di Dolo e quindi con altri legami, il Nuovo Rifugio Genova che lo coinvolge negli ultimi anni; e per finire il fascino, ricambiato, della presenza femminile. Franco nasce nel 1943 a Genova S. Olcese paese d’origine della madre mentre i Piana provengono da Campo Ligure (Ge). Si avvicina alla montagna, partendo da una famigliarità con i boschi, la natura, l’ambiente appenninico, propria di chi è stato vicino al mondo contadino. Poi le gite ed escursioni con il Circolo Parrocchiale, infine con il Gruppo Escursionistico “Scarponi” di Ge-Pontedecimo dove ne è ancora vivo il ricordo. Nel 1966 si iscrive al CAI per frequentare il II° Corso d’Alpinismo organizzato dalla Sottosezione di Bolzaneto, contemporaneamente alla comune amica Maria Dellepiane cui dedicai il pensiero sopra citato per la sua immatura scomparsa.
    Andiamo a ritroso: 1978. Non è questo l’inizio della storia di Franco ma è una data importante anche se si colloca alla fine della storia. La Sezione Ligure acquisisce il Nuovo “Genova” costruito dall’ENEL a riparazione della scomparsa nell’invaso della Diga del Chiotas del vecchio Rifugio, primo assoluto delle Alpi Marittime (1898). La delega della Sezione per l’atto d’acquisto, la conoscenza alpinistica e professionale della zona mi avvicinano al rifugio di cui parlo con Franco che già da qualche tempo vive dubbi per il suo lavoro all’Italsider di Genova. E mille dubbi nutre anche per la montagna che lo stimola e lo frena ad un tempo. È scomparso da non molto il suo più affiatato e scatenato compagno di salite Lorenzo Pomodoro su una banale cresta “invernale” delle Alpi Apuane. Guido Rossa cadrà poco dopo, per il “cedimento di un appiglio” che non aveva valutato come il suo stile d’arrampicata sembrava dovergli suggerire…. La Sezione gli offre la gestione del rifugio che accetta con la complicità degli amici di Bolzaneto. Inizia una stagione indimenticabile per tutti. L’estate del 1978 è già trascorsa, spesa per l’arredo con mobili e attrezzature in arrivo da Genova. L’anno successivo lavoriamo un mese circa con l’aiuto di mia moglie Bruna contitolare della gestione, promossa cuoca sul campo e di tutti gli amici molto “onorati” di partecipare. Il fine stagione è riservato ai lavori più gravosi con l’aiuto di alcuni compagni di fabbrica anche per il rinforzo di porte e finestre già “violate dai soliti ignoti”. Franco vorrebbe passare l’inverno, chiuso nel rifugio, con una mazza da baseball nelle mani pronto ad accogliere “i prossimi visitatori per stampar loro il sorriso sulle labbra”.

    2 Agosto 1970: sulla via Kluker-Neruda, parete NE del Lyskamm Orientale m 4527 (Gruppo M.Rosa)
    (neg. G.Noli)

    Non se ne fa niente! Progetta invece di ospitare al “Genova” i colleghi più in difficoltà: “pe na settemann-a de montagna!” Quando si avvicina l’apertura estiva 1980 si concretizza contemporaneamente l’adesione alla spedizione “Everest 80”. Franco risente ancora le conseguenze di un incidente sufficiente a metterne in dubbio la partecipazione, per la quale sono d’ostacolo il rifugio stesso e problemi famigliari, più soggettivi che reali. Contemporaneamente dedica, da mesi, moltissimo tempo a ginnastiche riabilitanti con attrezzature “autarchiche” montate nel capanno degli attrezzi dell’orto. Per arrampicare o portar carichi appoggia il peso dello zaino sul bacino con una cintura strettissima sgravando le lombari traumatizzate. Non so se un ortopedico avrebbe approvato! E si allena, pur tra mille dubbi. Arrampica, arrampichiamo con gli altri, prevalentemente in Marittime per essere più vicino al “Genova”, a casa e pronto per ogni eventualità che l’organizzazione della spedizione comporta anche se il quartier generale è Dolo, patria di Roberto Santon, con il quale è già stato nelle Ande Peruviane ed in Himalaya all’Annapurna III.

    I rituali dell’allenamento con gli amici sono ora più radi ma per la prima spedizione alle Ande si camminava e si arrampicava con Franco gravandolo, spesso a sua insaputa, di pesi aggiuntivi. Tutto finiva in una risata e con il classico intercalare genovese “oh belin!“ ma si continuava a camminare. Ora il suo livello alpinistico è ben più alto e svolge gran parte della preparazione altrove o da solo. Una sera parte dal rifugio alle 21, la luna sta per sorgere luminosa e tonda, sale al Chiapous, scende al Lagarot, sale il Canalone di Lourousa e dal Baus riscende al rifugio per le 3 del mattino. È la replica in Marittime di quanto fatto sul Bianco: sera – Rifugio Torino, Ghiacciaio del Gigante, Canalone Gervasutti al Tacul sotto la luna. Ritorno al Torino all’alba. La stagione è cominciata, Franco fa la spola tra il “Genova” e Genova. Una sera Giorgio inventa una cerimonia piazzando una gran foto di Franco ritratto sul pilastro SE del Baus. Mentre gesticola con le sue grandi mani Franco annuncia divertito che se rimarrà sotto il ghiaccio della Ice Fall: “tra venti o più anni, sarò ancora tale e quale e voi vecchi, o scomparsi”. Alla fine di luglio ci salutiamo sulla strada del rifugio vicino alla piccola diga di Colle Laura: non avevo mai guardato Franco negli occhi – preferivo quelli delle sue ragazze – mi parvero chiari, trasparenti come si potesse vedere oltre. Fu certo una suggestione d’origine letteraria (Giovannino Guerreschi “La scoperta di Milano”) ma non ho mai dimenticato quell’istantanea impressione.

    22 Ottobre 1972: in vetta al M. Roccandagia m 1700 dopo aver salito la cresta ESE (Alpi Apuane)
    (neg. Famiglia Piana)

    Una stretta di mano e una vicendevole esortazione: “me raccomando!!” Dal campo Base arrivano alcune lettere piene di dubbi e rimorsi repressi: la morte di uno sherpa all’inizio della Ice Fall, i fatti della stazione di Bologna che gli arrivano per telex, forse qualche difficoltà nei rapporti con il Capo spedizione Santon che come confesserà nel libro “A due passi dalla cima” non sono mai “acritici”, ma in compenso la forma che lo assale sempre oltre una certa quota, forma che si “vede” ritratta nelle ultime foto e, non ultima, la determinazione a rispettare un impegno: era vice Capo spedizione! Il 22 Settembre 1980, è una domenica e noi al Rifugio Genova stiamo lavorando all’acquedotto. All’Everest, quota 7300 circa, verso il campo IV all’altezza delle famigerate “Fasce Gialle”, Franco viene travolto da una modesta quantità di neve. Il compagno Radin non è neppure preoccupato pensando di estrarlo semplicemente tirando la corda che li lega, ma quella poca neve è già impenetrabile, il lavoro suo e di uno sherpa dopo due ore, con le piccozze, non porta ad alcun risultato. Un telex da Katmandu arriverà in Italia e poi a Genova tre giorni dopo. Piero Radin non lo salva e si dannerà l’anima per non aver ricambiato quanto Franco mise in atto con una forza, una dedizione e un’opera di “ingegneria alpina” all’Annapurna III nel 1977. Piero era caduto assieme a Luigino Henry, cui Franco non può far altro che dare “sepoltura” in un crepaccio. Da solo cala Piero fino ad una posizione sicura lavorando non so quanto poi scende ai campi inferiori e immediatamente risale con gli altri per dirigere il trasporto del ferito verso il campo base impiegando diversi giorni. Solo le immagini fissate in una serie di diapositive “realizzano” le impressioni suscitate dal racconto di Franco come al solito scarno e privo di enfasi. Non accetterà mai di essere proposto per l’Accademico così come rifiuterà di sponsorizzare un calzaturificio: “scarpe che no me piàxian”. Le userà una volta e poi le nasconderà al rifugio. Con un giudizio tecnico rimuoverà un fastidio di natura morale. Avrebbe dovuto solo mettere una firma! Lo sponsor genovese che lo aveva presentato ancora oggi non capisce. Flashback. Ho avuto la fortuna di averlo, come allievo, al Corso d’Alpinismo alla prima uscita in palestra. Ricordo solo una certa sicurezza ma nessuna spavalderia. Era già un escursionista e l’iscrizione al Corso, l’alpinismo non rappresentavano il sogno di una vita. Osservai negli anni seguenti che arrampicava con uno stile sobrio, continuo, le sue caratteristiche fisiche non lo facevano assomigliare ai dinoccolati Gianni Calcagno o all’amico Giorgio Noli, forse più a Guido Rossa. Chissà se il lavoro di “aggiûstêur” (antica definizione genovese di meccanico) che condividevano non nascondesse altre affinità psicofisiche? Era certo un’alpinista fuori dagli schemi: se lo immaginassimo inserito in un’altra epoca avrebbe rifiutato sia il così detto “eroismo” degli anni trenta sia il narcisismo dei free climbers di oggi o le esasperazioni allucinate dei californiani. A margine dell’articolo un brevissimo estratto delle sue principali salite è sufficiente per capire cosa avrebbe rappresentato per il mondo alpinistico se avesse voluto mostrarsi. Era inutile chiedere a Franco notizie sulle difficoltà del Pilone Centrale del Bianco o della Ratti-Vitali alla Noire: ci descriveva la bellezza o lo scarso interesse suscitato. Esaminando l’elenco si consideri anche l’epoca, la varietà, la relativa brevità temporale nonché la provenienza dall’entroterra Genovese. No di Cortina o Courmayeur. Ora alcuni ricordi “minimi” personali degli amici del gruppo che, se non altro, vogliono essere un omaggio, un contributo alla memoria collettiva, forse l’assolvimento di un ultimo impegno. Come del resto questo stesso articolo che mentalmente riscrivo da secoli, forse solo per me. Settembre 1975. Arriva con Lorenzo Pomodoro a casa mia a Valdieri, rifugio di fondo valle per molti amici. Partono per la Ughetto-Ruggeri alla Nord del Corno ma sotto il Lagarot Franco trova un “quintale” di porcini. È disposto a tornare a Genova, prendere suo padre e portarlo lassù ma il compagno non sente ragione. Effettuano la seconda ripetizione della via. Quel suo desiderio di rimanere agganciato continuamente alla famiglia, alle abitudini contadine, era uno degli aspetti di quel “provincialismo” di cui andava fiero e che lo rendeva diverso da molti altri, più disponibile e contemporaneamente più reattivo, insofferente delle formalità, delle esteriorità. L’abbigliamento quasi sempre casuale, non “casual”, testimoniato dalle foto, conferma queste impressioni. Giorgio Noli, diversi anni prima sale all’Asta Sottana per la complicata via Campia con l’inseparabile “Luciano”; scendendo dalla zona del futuro Bivacco Costi vede una splendida torre avamposto della Cima. Nel 1973 parte con Franco e assieme tracceranno una delle più belle “classiche“ delle Marittime: «saliamo senza rispettare priorità. Su uno dei passaggi in libera più difficili Franco vola e non vuole ripartire da primo. Così lo sprono – memore di antiche letture – perché non rimanga in lui sorta di paure inconsce. Ma anche perché – assicurazione a spalla! – ho le mani spellate». Psicologia o convenienza?! Alle Marittime ritorna sempre dopo spedizioni o salite importanti quasi come per un ritorno in famiglia ed in ogni caso per una “rimpatriata “ con gli amici di sempre con i quali compie anche innumerevoli scialpinistiche pur non avendo alcuna predilezione sciistica. E soprattutto senza far distinzioni di sorta tra gli amici più o meno bravi. Aldo Timossi: «in una di quelle scialpinistiche “tragicomiche” effettuate con Franco spaesato sugli sci quasi quanto me, verso la fine della tribolata discesa la salita non poneva certo problemi a nessuno dei due – Franco cade nella neve marcia del fondovalle e siritrova in un groviglio inestricabile di sci, pelli, bastoncini, zaino e qualche arbusto dal quale emerge ridendo e con una battuta fotografa la situazione: “I mazochisti me fan rïe o belin”» Nicolò Campora: «arrampichiamo in un lungo solare settembre dolomitico, giovani e squattrinati. Quindici giorni in montagna, molte salite alle spalle, saliamo velocissimamente la “Fedele” al Sass Pordoi nel Gruppo di Sella. Dall’ampia vetta, piena di turisti, saliti fin lassù in funivia, scendiamo sino alla grande cengia della parete NO che attraversiamo per risalire arrampicando la cresta SO parallela alla funivia. Questa seconda salita alla vetta lungo l’aerea cresta ben visibile ai turisti, avrebbe potuto, a detta dell’incaricato della biglietteria, “dare spettacolo” e garantirci la discesa gratuita. Dopo tanti giorni di montagna, eravamo a corto di “palanche”». Euro Montagna (trascinatore di talenti veri e di illustri sconosciuti) apre con Franco una via sull’infida e anomala puddinga del Castello della Pietra. Verso la cima piazzano un classicissimo palo per risalire la fessura terminale: «sentivo in lui una latente energia ora che dopo tanto lavoro eravamo vicini alla conclusione, lo mandai avanti. Ridiscese non fidandosi di un arbusto, incerto, unico “appiglio naturale” disponibile. Superai l’infido passo ma quando mi raggiunse in vetta notai una luce di vera gioia sul suo volto come non ebbi più a scorgere nelle altre occasioni. Era stata per Franco una lezione ed un’iniziazione». In qualche angolo della sua vecchia casa di campagna, avrebbe dovuto trovarsi una lettera o la traccia di un appuntamento con Messner per il Lhotse. La schiena, il rifugio, la famiglia e la politica probabilmente non lo avrebbero trattenuto. Nemmeno la tanto ricercata presenza femminile! Dopo sarebbe come sempre ritornato alle Marittime, con noi, al suo “Rifugio”, a quelle montagne più umili, domestiche, forse solo famigliari a fronte di quelle immense, declamate, ma ormai più lontane nel suo cuore.
    PRINCIPALI SALITE DI FRANCO PIANA
    Alpi Apuane: M. Nona, via Licia e via Vaccari; Pania Secca, Gran Pilastro SE via Montagna (1ª inv.); Pizzo d’Uccello, par. N via Oppio-Colnaghi.

    Alpi Marittime: Cima dell’Asta Sottana, direttissima Torre S (1ª sal.); Cima S dell’Argentera, sper. ENE (1ª sal.); Punta Ghigo, parete N (1ª sal.) e parete S Diedro Centrale (1ª sal.); Corno Stella, parete N via Ughetto Ruggeri (2ª rip.); Il Baus, Speroni SE: sper. Bruna (1ª sal.); pilastro SE via Silvia (1ª sal.); sper. du Gardien (1ª sal.); spigolo SSE via Flavia (1ª sal.); Serriera di Barbacana, parete O della 2ª Punta (1ª sal.).

    Alpi Cozie: Torre Castello, spig. Castiglioni, spig. NO (1ª inv.), parete S (4ª sal.); Monviso, parete N via Coolidge. Alpi Graie: Gran Paradiso, parete N via Diemberger (solit.); Monte Bianco, Pilone Centrale del Frêney e Cresta di Peutérey; Punta Gugliermina, parete SSO via Boccalatte-Gervasutti; Aig. Noire de Peutérey, cresta S e parete O via Ratti-Vitali; Mont Blanc du Tacul, pilone innominato parete E (1ª sal.) e pilastro Gervasutti; Grand Capucin, parete E via Bonatti; Pic Adolphe Rey, via Gervasutti e via Salluard; Grandes Jorasses, Punta Young, via Bonatti (1ª ripet.) e Pilastro del Ghiacciaio sospeso via Ottoz (1ª ripet.); Tour des Jorasses, cresta S (1ª sal.); Petit Jorasses, parete O via Contamine (2ª ripet.); Mont Greuvetta, parete OSO (1ª sal.).

    Alpi Pennine: Lyskamm Orientale parete NE via Neruda; Breithorn Orientale, parete N via Joung.Dolomiti: Crozzon di Brenta, via delle Guide e parete N pilastro dei Francesi; Campanile Basso di Brenta, via Graffer e via Preuss; Brenta Alta parete NE via Detassis; Pala di San Martino, parete N via Solleder; Torre Trieste, parete S via Carlesso; Torre Venezia, Via Andrich, via Tissi e via Castiglioni; Cima Su Alto, parete O via Ratti-Vitali; Cima Scotoni, via Lacedelli; Cima Grande di Lavaredo, via Comici; Pilastro di Rosez, parete S via Costantini-Apollonio; Marmolada, pilastro S via Micheluzzi.

    Ande Peruviane: Nevado Pisco; Nevado Huandoy, cresta N (1ª ripet.); cresta E (1ª sal.).A questo stringato elenco vanno aggiunte molte invernali sulle Apuane; la maggior parte delle classiche in Marittime, vie importanti nel “Bianco”, in Dolomiti e su tutto l’arco alpino, oltre ad una intensa attività scialpinistica. Nel curriculum, ricostruito grazie anche alla collaborazione di alcu ni suoi compagni di cordata, figurano oltre 200 ascensioni di ottimo livello tra cui 17 prime salite, 6 prime invernali, 6 prime ripetizioni, conside rando comunque che Franco non teneva diari della sua attività.

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