Vallone di Sea le “Antiche Sere”

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  • #25100
    alberto
    Partecipante

    Fabri questo l’avevi letto?

    [b]Dove va l’Alpinismo?[/b]

    Che cosa nasconde il formidabile aumento del numero delle persone che cercano la grande avventura in montagna?

    Mai come in questo periodo l’industria si sta interessando seriamente agli sport della montagna, ma soprattutto allo scialpinismo e all’alpinismo. Mai come in questo periodo la letteratura di montagna è stata così ricca e feconda di produzioni, purtroppo il più delle volte di valore piuttosto mediocre.

    Durante la stagione estiva i gruppi più interessanti della catena alpina sono letteralmente presi d’assalto, una sistematica aggressione da parte di alpinisti di ogni nazionalità, che giungono alla “Mecca” alpina ricorrendo a ogni mezzo. Vi è in tutto il fenomeno una certa tendenza al distacco dal sociale, il movimento hippy sembra si stia trasferendo in montagna. Ed è anche questo molto interessante. Comunque vi è un dato di fatto, ed è quello che la tanto decantata solitudine dell’Alpe pare essere definitiva mente perduta: sulle vie di scalata le cordate si intrecciano, sembrano, viste da lontano, tante formiche che salgono lungo un tronco, sovente i rifugi sono zeppi, ma non importa, vi è chi si arrangia in ogni modo, chi dorme in terra, chi fuori, chi all’ attacco della stessa via. Ogni tabù è stato infranto. Salite che solo dieci anni fa erano appannaggio di pochissimi alpinisti al mondo, ormai sono ripetute da cordate di illustri sconosciuti; sovente anche da solitari. E quando la catena alpina, le “solitarie”, l’inverno, non bastano più, quando la noia subentra alla droga dell’ avventura, ecco apparire l’Himalaya, dove c’è ancora spazio per chi desidera osare l’inosabile. Ma anche qui comincia a farsi sentire un certo affollamento: sovente Chitral ricorda le vie di Chamonix, la valle di Kumbu tra trekkinisti e alpinisti non è che un continuo via vai, il Baltoro ha visto in una sola estate una decina di spedizioni. Anche qui si cerca di arrivare con ogni mezzo, i più ricchi in aereo o con i costosi viaggi organizzati, gli altri con un pulmino diesel magari acquistato di seconda mano. Altri ancora si adattano a ogni mestiere, lecito e non lecito, per poi andare in Oriente, quasi un fascino magnetico li richiamasse in quella direzione. Non so se qualcuno trova ciò che va cercando. Non credo, perché quando poi ritornano alle loro abitudini, il gioco riprende da capo in palestra, dove alla lunghezza e alla sostenutezza si sostituisce il gioco narcisistico della difficoltà pura, dove il gesto e l’estetica giungono al limite delI’onanismo spirituale.

    Eccoli gli uomini della “lotta con l’Alpe” degli anni Settanta: i lunghi capelli, l’immancabile fascia in fronte, le pedule di tela lacere e stracciate, i jeans formati non da tessuto, ma da tante toppe messe insieme, lo sguardo perduto in orizzonti indefiniti.

    La psicologia ortodossa li definirebbe nevrotici, alienati, forse schizofrenici. Loro lo sanno e se ne fottono, anzi sono felici di esserlo. Eppure fanno tenerezza, come facevano tenerezza (e rabbia) le canzoni di Dylan, come faceva tenerezza la conclusione drammatica di Easy Rider, per chi ancora la ricorda. Fa tenerezza una volta di più il loro tentativo disperato (e forse inutile) di uscire da un ingranaggio mostruoso che li stritola e li dissangua, ma spesso quel loro splendido e ingenuo tentativo può rivelarsi una trappola che li uccide in un modo molto più raffinato.

    Si dice che il nostro momento storico sia caratterizzato dal materialismo e dalla concretezza, dalla pianificazione e dal realismo.

    A me pare tutto l’opposto, anzi mi sembra proprio che per reazione a questo tentativo emerga ancora una volta la parte più genuina e luminosa di quest’animale chiamato uomo. Proprio l’alpinismo sta a dimostrare un tentativo di evasione, un desiderio di fuga e di elevazione, una sorta di ultima spiaggia prima che inquinamento, incremento demografico e follia diano coscienza al popolo degli uomini della sua assurda corsa verso l’inutile.

    Certo la massa dei benpensanti, il gregge, li disprezza o forse li compatisce. Ma forse dietro il disprezzo si celano l’invidia e la paura, la grande paura che inchioda al suolo e fa tremare le gambe. È vero, forse anche il loro tentativo è inutile, forse ci scappa qualche sigaretta speciale di troppo, forse a volte un certo acido li fa salire troppo in alto e troppo in fretta. Eppure io provo tenerezza e simpatia per questo esercito sgangherato e macilento: la montagna è uno dei pochi posti dove vive ancora una poesia genuina, alimentata da una vaporosa ed eterea atmosfera di lucida e consapevole follia. Qui ancora puoi a volte incontrare un sorriso che non sia stato mortificato, uno sguardo luminoso e bruciante che ancora non sia stato spento. Ed è molto, se lo si paragona al viso di coloro che si agitano incatenati nei loro ruoli definiti nel colossale formicaio delle città industriali.

    Forse mai come in questo momento l’alpinismo si dibatte in un’impasse che non ha vie di soluzione alcuna. Con l’incremento dei mezzi tecnici si è creduto di progredire, ma in realtà non si è fatto che regredire sul piano umano. A poco a poco si è venuta a creare l’illusione di poter salire ovunque, si è creduto ingenuamente di poter aprire il territorio alpinistico a chiunque, usufruendo dei mezzi aggiornatissimi che la tecnica ci ha messo a disposizione. La stessa illusione amarissima la sta vivendo la società occidentale, la quale, credendo assai presuntuosamente di assoggettare la natura ai propri voleri, sta assistendo impotente alla distruzione del pianeta.

    Reinhold Messner un giorno scrisse: «Vi sono due maniere di arrampicare: quella che tende ad adeguare la montagna all’uomo e quella in cui l’uomo si adegua invece alla montagna. La seconda maniera, nella quale l’uomo affronta la montagna senza modificarla, è la sola che ammette una valutazione della difficoltà alpinistica». Vorrei andare più oltre e intravedere una possibile e non utopistica armonia con la montagna, dove competizione e misurazione con se stessi non abbiano più senso alcuno. L’esempio di Preuss, per quanto tacciato di nietzchianesimo, per quanto vivisezionato e ridimensionato dalla psicanalisi, dovrebbe farci riflettere. Certo nell’isterica e volgare oppressione che la montagna subisce, non vi è nulla di gentile, elegante ed armonico, salvo casi molto rari. Anche lo sci, il massimo divertimento oggi sta nel gettarsi giù, con gli assi nei piedi, da pareti di ghiaccio quasi verticali. Basta un minimo errore e ci si ammazza, ma questo pare non importare molto. Importa ciò che si prova durante la discesa, e poi… Inch’ Allah…

    Dunque a dispetto di ogni voce che grida nel deserto “Pace e bene a tutti”, il momento impone analisi e riflessione. Per ora assistiamo senza commento a questo imponente “ritorno ai monti”.

    Gian Piero Motti – “Rivista Fila”, febbraio 1976

    #25103
    fabrizio
    Amministratore del forum

    Si si, il libro propone molti, anzi moltissimi spunti interessanti, mi è piaciuto un sacco anche “Il Pic de Bure” anche se lì descrive una sua avventura in montagna più che una riflessione come nel testo citato da te…tra qualche pagina ho “Alla ricerca di antiche sere”

    #25108
    alberto
    Partecipante

    Zero the hero | Gian Piero Motti

    Premessa: cercare di decifrare questo articolo è stato per me un viaggio lungo ed affascinante. Qualche mese fa venni giustamente preso in giro su un forum di montagna per avere fatto una domanda molto ingenua in proposito; siccome l’argomento mi interessava cominciai a leggere, ad informarmi e a cercare. E` stato un viaggio di immagini, musica e storia, ancor prima che di roccia. Un viaggio da cui sono nati rami inaspettati, che mi hanno fatto scoprire altre strade, spesso completamente avulse da quella che stavo battendo ma altrettanto interessanti. Ritrovarmi ad un certo momento a scoprire che alcune tessere cominciavano a combaciare nella mia testa e che infine – pur con mille buchi e punti interrogativi ancora irrisolti – mi sono fatto un’idea (del tutto personale) di cosa stia dietro a questo pezzo, mi ha dato un’intima soddisfazione.
    In questo post non cercherò di spiegare Zero the Hero (sarebbe del tutto pretestuoso, oltre che presuntusoso e fuori luogo), tuttavia lascerò intuire alcuni spunti personali (del tutto opinabili).
    Ma se avete tempo e pazienza, salvatevi le scansioni dell’articolo (sul libro “I falliti”, purtroppo, è riportato solo il testo), evitate di leggere il resto e cominciate a cercare. Non vorrei togliervi il piacere di scoprire tutto da voi, a vostro modo.

    Quando nel 1980 la Rivista della Montagna pubblicò Zero the Hero, furono molti coloro che non capirono il senso di quella pagina bianca e delle carte del ‘matto’ e dell’‘appeso’ dei tarocchi inserite nel testo. Quella volta Motti aveva lanciato una provocazione assoluta, proclamando a gran voce la necessità di azzerare ogni cosa ribaltando un ordine ormai privo di ogni senso e necessità.

    Diversi fra i poveri lettori di quella Rivista della Montagna del Dicembre 1980 scrissero alla redazione lamentando una pagina mancante.
    In effetti, qualcosa non torna: ad un’introduzione composta da una presentazione del pezzo da parte dell’autore corredata da una parabola orientale, seguono un’illustrazione a piena pagina, una pagina vuota ed una pagina di note. Le note rimandano a… non si sa cosa, visto che l’articolo non c’è.

    D’altra parte, anche ciò che c’è non è esattamente quello che uno si aspetterebbe da un pezzo su una rivista di alpinismo. Ecco il testo:

    Chi saprà stupirsi regnerà…

    Tempo fa decisi di non scrivere più. Avevo bisogno di chiarire e distillare in me stesso alcune visioni di carattere determinante, della cui interpretazione, tuttavia, non ero ben certo. Ora, dopo un lungo e faticoso lavoro di attesa e di autoanalisi, la nebbia si è del tutto diradata e il vero appare nella sua evidenza.
    Ho potuto così giungere alla stesura di questa racconto simbolico, che, a mio giudizio, rappresenta la chiave per comprendere il perché della nostra azione in montagna. Mi sono servito dell’allegoria, che sempre mi è stata cara, in quanta penso che essa più facilmente rappresenti dei concetti che altrimenti
    risultano di difficilissima spiegazione. Naturalmente il lettore più acuto e intelligente saprà leggere tra le righe, e saprà anche riconoscere nella scritto luoghi, fatti e personaggi di oggi e di ieri. Considero questa scritto come la meta finale e la summa, per così dire, di tutto il mio lungo lavoro di studio e di ricerca. Senza false modestie, in esso si può veramente trovare il tutto, la verità completa spogliata da ogni velo e da ogni inganno.
    Questo racconto è come uno specchio fedele in cui ognuno saprà trovare la propria immagine vera, se avrà il coraggio di specchiarvisi. Credo che dopo questo scritto non mi resterà molto da dire…
    Amico lettore, non temere. Tu saprai leggere ciò che è contenuto in questa scritto. Corri, corri lettore.
    Continua a correre, a discutere, a essere scettico, agnostico, dialettico. Corri, anche tu un giorno troverai il tuo specchio. Io non ho nulla da dirti. Se hai ancora un po’ di pazienza (ma poca, perché sono tanti i falsi maestri che ora ti attendono…) leggi questa illuminante allegoria di Brecht. Forse riesco ancora a trovare la maniera di farti incazzare un poco…

    «Gotama, il Budda, insegnava la dottrina della Ruota dei Desideri, cui siamo legati, e ammoniva di spogliarsi d’ogni passione e così senza brame entrare nel Nulla, che egli chiamava Nirvana. Un giorno allora i suoi discepoli gli chiesero: “Com’è questa Nulla, Maestro? Noi tutti vorremmo liberarci d’ogni passione, come ammonisci; ma spiegaci se questa Nulla in cui noi entreremo è qualcosa di simile a quella unità col creato di quando si è immersi nell’acqua, al meriggio, col corpo leggero quasi senza pensiero, pigri nell’acqua; o quando nel sonno si cade accorgendosi appena di avvolgersi nella coperta e subito affondando; se questo Nulla dunque e così lieto, un buon Nulla, o se invece quel tuo Nulla è soltanto un nulla, vuoto, freddo, senza significato”. A lungo tacque il Budda, poi disse con indifferenza: “Non c’e, alla vostra domanda, nessuna risposta”.
    Ma a sera, quando furono partiti, sedette sotto l’albero del pane il Budda, e disse agli altri, a coloro che nulla avevano chiesto, questa parabola: “Non molto tempo fa vidi una casa. BruciaVa, il tetto era lambito dalle fiamme. Mi avvicinai e m’avvidi che c’era ancora gente, là dentro. Dalla soglia li chiamai, che ardeva il tetto, incitandoli a uscire, e presto. Ma quelli parevano non avere fretta. Uno mi chiese, mentre la vampa già gli strinava le sopracciglia, che tempo facesse, se non piovesse per caso, se non tirasse vento, se un’altra casa ci fosse, e così via. Senza dure risposta usci di là. Quella gente, pensai, deve bruciare prima di smettere con le domande. Amici, davvero, a chi sotto i piedi la terra non gli brucia al punto che paia meglio qualunque cosa piuttosto che rimanere, a costui io non ho nulla da dire”. Così Gotama, il Budda.»

    #25109
    fabrizio
    Amministratore del forum

    Sto cercando di capirci qualcosa anch’io! Ho letto per ora il post sul blog di Gogna che ne parla…doveva essere un tipo da niente! :blink:
    [i][b]Amico lettore, non temere. Tu saprai leggere ciò che è contenuto in questa scritto. Corri, corri lettore.
    Continua a correre, a discutere, a essere scettico, agnostico, dialettico. Corri, anche tu un giorno troverai il tuo specchio. Io non ho nulla da dirti. Se hai ancora un po’ di pazienza (ma poca, perché sono tanti i falsi maestri che ora ti attendono…) leggi questa illuminante allegoria di Brecht. Forse riesco ancora a trovare la maniera di farti incazzare un poco…[/b][/i] (G.P.Motti)

    #25110
    alberto
    Partecipante

    [quote=”fabrizio” post=26881]Sto cercando di capirci qualcosa anch’io! Ho letto per ora il post sul blog di Gogna che ne parla…doveva essere un tipo da niente! :blink:
    [i][b]Amico lettore, non temere. Tu saprai leggere ciò che è contenuto in questa scritto. Corri, corri lettore.
    Continua a correre, a discutere, a essere scettico, agnostico, dialettico. Corri, anche tu un giorno troverai il tuo specchio. Io non ho nulla da dirti. Se hai ancora un po’ di pazienza (ma poca, perché sono tanti i falsi maestri che ora ti attendono…) leggi questa illuminante allegoria di Brecht. Forse riesco ancora a trovare la maniera di farti incazzare un poco…[/b][/i] (G.P.Motti)[/quote]

    senza dubbio una persona complicata, che si faceva tante domande.

    #25235
    alberto
    Partecipante

    sul BLOG di Gogna c’è una raccolta firme per cercare di fermare lo scempio del vallone di Sea ad opera di amministratori scellerati.

    chi è interessato ci vada e firmi.

    #26042
    alberto
    Partecipante

    GIAMPIERO MOTTI

    Biografia

    6 Agosto 1946

    Nasce a Torino. Di famiglia agiata, può permettersi di vivere di montagna e non avrà mai problemi a manifestare la sua estrazione borghese. Di lui si ricorda che andava ad arrampicare in Lancia Fulva Coupé e che disponeva sempre dei materiali migliori. Per questo, oltre che per lo stile plastico ed elegante di arrampicata, venne soprannominato il “Principe”.

    1969

    Prima solitaria al Pilier Gervasutti sul Mont Blanc du Tacul. L’impresa alpinistica che lo rende famoso.

    1972

    Pubblica il primo dei due articoli-chiave della sua carriera e di un’intera generazione:
    “I Falliti”, nel quale attacca chi non sa più vivere senza montagna. La frizione con l’ambiente conservatore e sabaudo dell’alpinismo torinese diventa insanabile.

    Motti scopre le pareti fino ad allora inviolate della Valle dell’Orco, dove inventa, letterariamente prima ancora che in falesia, un Eldorado di granito nostrano. Il Capitan della Yosemite Valley viene riprodotto sulle rocce piemontesi e diventa il “Caporal”. Su queste pareti l’anno successivo Motti traccia, insieme a Guido Morello, una via destinata a fare epoca: “Itaca nel Sole”.

    1974

    Esce il suo secondo, celebre scritto: “Il Nuovo Mattino”. Anche se in realtà si tratta di un “semplice” excursus sul mondo dell’arrampicata libera californiana, viene da tutti letto come il manifesto di un nuovo modo di intendere l’arrampicata, non più come dovere, ma come puro piacere estetico e intellettuale. Ne deriva una corrente alpinistica vera e propria, con tanto di discepoli e adepti, che Motti – va precisato – non fa nulla per alimentare. È il ’68 della montagna.

    1983

    Con l’articolo “Le Antiche Sere” rovescia in parte i concetti espressi nel “Nuovo Mattino”, ribadendo la necessità di un approccio meno integralista alla montagna. Sono gli anni del riflusso dopo l’epoca della contestazione, Motti fatica a trovare il suo spazio in un ambiente che sta di nuovo cambiando pelle.

    Il 21 giugno dello stesso anno si toglie la vita.

    Scritti

    I falliti – rivista mensile del CAI, settembre 1972

    “Andavo ad arrampicare tutti i giorni, o quasi, preoccupatissimo di ogni leggero calo di forma. Ma non mi accorsi nemmeno che stava divenendo primavera, non vidi neanche che qualcosa di diverso succedeva nella terra e nel cielo e chi ben mi conosce sa che questo equivale a una grave malattia. Arrampicare, arrampicare sempre e null’altro che arrampicare, chiudermi sempre di più in me stesso, leggere quasi con frenesia tutto ciò che riguarda l’alpinismo e dimenticare, triste realtà, le letture che sempre hanno saputo dirmi qualcosa di vero e che con l’alpinismo non hanno nulla a che spartire. Ma qualcosa comincia a non funzionare: ritornando a casa la sera mi sento svuotato e deluso, mi sento soprattutto inutile a me stesso e agli altri, mi sembra anzi, e ne ho la netta sensazione, che il mio intimo si stia ribellando a poco a poco a questo stato di cose, che il mio cervello non tolleri questo modo di vivere. Ed ecco che giunge la crisi, terribile e cupa”.

    Il Nuovo Mattino – Scandere, 1974

    “Nella Yosemite Valley c’è il Capitan, parete immensa, guscio di granito dalle proporzioni disumane. Balma Fiorant presenta al centro una parete che è un microcosmo del Capitan, noi l’abbiamo chiamato il Caporal (…) Sarei molto felice se su queste pareti potesse evolversi sempre più quella nuova dimensione dell’alpinismo spogliata di eroismo e di gloriuzza da regime, impostata invece su una serena accettazione dei propri limiti, in un’atmosfera gioiosa, con l’intento di trarre, come in un gioco, il massimo piacere possibile da un’attività che finora pareva essere caratterizzata dalla negazione del piacere a vantaggio della sofferenza. Se qualcuno poi dirà che questo non è più alpinismo, di certo non ci sentiremo offesi nel sentirci definire semplici “arrampicatori” e non “alpinisti”. Cosa sia poi veramente l’alpinismo ancor non l’ho ben capito”.

    Alla ricerca delle antiche sere – Rivista della montagna, 1983

    “Perché antiche sere? Perché un albero mette frutti e fiori soltanto se ha radici e soltanto se la linfa vitale scorre dalle radici ai rami: se si taglia l’albero all’altezza delle radici, ahimè!, ben presto esso morirà, diverrà un tronco secco da ardere, senza fiori e senza frutti. Qualcuno, forse in buona fede, sta cercando di segare l’albero per staccarlo dalle sue radici, con l’illusione di dargli finalmente la libertà di movimento. Ma forse si è ancora in tempo a porre riparo, a cicatrizzare la ferita, ormai molto estesa, e a ricollegare i capillari della linfa con le radici sottostanti. Molti cominciano già a vedere che l’albero dà frutti avvizziti, quasi non dà più fiori, va perdendo le foglie e rinsecchendosi nei rami. Ed è per questo che mi sono preso l’arbitrio di usare tanto mito nel battezzare le pareti rocciose: lo si voglia o no, è nel mito che possiamo trovare il senso del nostro esistere e la risposta ai grandi perché della vita”.
    Le montagne di Gian Piero

    Oggi possiamo dire che il passaggio di Gian Piero Motti nel mondo dell’alpinismo abbia rappresentato un’autentica boccata di aria fresca. La sua visione ludica della montagna, l’assoluta assenza di discriminazione tra alpinismo classico e scalata in falesia o su massi, l’apertura mentale e l’avversione verso il provincialismo hanno permesso all’ambiente di avvicinarsi alla scuola francese prima e a quella americana poi, cioè di adeguarsi ai tempi. Da questo punto di vista Motti è stato davvero l’uomo nuovo, il grimaldello che ha spalancato le porte su una nuova epoca. Il suo essere imbevuto dei miti musicali, letterari e cinematografici d’Oltreoceano ne fanno un rappresentante atipico e sfaccettato dell’alpinismo non solo italiano. A settant’anni esatti dalla nascita, Gian Piero Motti è un personaggio che non finisce di sollevare interrogativi. La sua parabola alpinistica è stata una ricerca sofferta del senso più profondo della vita. Il mondo di Gian Piero era una foresta di simboli da interpretare, mentre la profonda cultura che lo animava ne fa uno dei campioni dell’ambiente intellettuale italiano del secondo dopoguerra. La personale visione del ’68, poi, lo rende una figura ancora più complessa, perché di quel periodo di cambiamenti epocali Motti fece proprie primariamente le istanze culturali, letterarie e spirituali, lasciando ad altri, non necessariamente più preparati o intellettualmente onesti, il compito di portare la discussione su un piano politico e sociale.

    #26044
    alberto
    Partecipante

    dal Blog di Alessandro Gogna un anticipo sul film su Giampiero Motti che credo uscirà alla fine di quest’anno.

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