La montagna uccisa

 Il 2 settembre dello scorso anno ho deciso di fare un’escursione breve sui monti Carchio (mt. 1087) e Folgorito (mt. 911) con un’amica e mio fratello, prima della fine delle vacanze. Non essendo con il solito gruppo di escursionisti, avevo scelto quella montagna per questi motivi: la semplicità del percorso, la breve durata e soprattutto per percorrere i sentieri sui quali è stata scritta la Storia alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Ma avevo anche sentito diverse storie deprimenti sul Carchio, riguardanti il suo stato dopo anni di escavazione selvaggia.

Raggiungiamo Foce al Campaccio (alla quale si arriva facilmente seguendo le indicazioni per Pasquilio, presenti già dall’Aurelia, svoltando in direzione Montignoso) e lasciamo l’auto nello spiazzo dove partono i sentieri 33 e 140. Prendiamo il 33: il percorso che ho intenzione di fare è seguire questo sentiero fino al bivio che poi, girando a destra, ci porterà sul Carchio. Procediamo per i primi venti minuti tra i pini e vegetazione bassa, arrivando poi a una zona abbastanza pianeggiante e brulla, dalla quale però si ha una bella visuale sulle Apuane massesi: il Sagro e i suoi innumerevoli ravaneti, il Contrario e il Cavallo. Qui dovrebbe esserci un’indicazione per “Linea Gotica – Monte Folgorito”, ma in realtà il bivio non è segnalato e il cartello, del quale avevo letto, è stato rimosso. Decido così di procedere  sul 33 verso il Passo Focoraccia (mt. 1059), visto che il panorama è bellissimo. Arrivati qui decidiamo di fare una pausa, osservando l’Altissimo e le Cervaiole, ridotte ormai a un blocco squadrato, per poi percorrere un sentiero di cresta che è tracciato sulla mia carta (Alpi Apuane. Atlante turistico e dei sentieri. Edizioni Multigraphic, Firenze, 2008), per poi tornare indietro verso il Carchio, la cui vetta ci appare già più avanti alla fine del percorso che stiamo intraprendendo. Rivedere queste montagne, dall’Altissimo al Cavallo e al Contrario mi fa tornare in mente escursioni passate, tentativi falliti per il ghiaccio e la neve, la solitudine che il mare ti nebbia ti dà al Passo degli Uncini e le mani tagliate e stanche sulla ferrata che sale l’impressionante lastrone dal quale emerge il Contrario. Ma l’escursione di oggi è tutta un’altra cosa.

Avvicinandoci ci rendiamo conto sempre di più che le voci riguardanti lo stato della montagna erano veritiere: una strada carrozzabile arriva fino alla cava sommitale, una vera e propria voragine che ha spaccato a metà una vetta che un tempo doveva essere stata agile e elegante, slanciata verso il cielo; una serie di orrende antenne altissime sorgono appena dietro la vetta. Avanzando tra i detriti della cava passiamo un taglio abbandonato dove ora scorrazzano delle capre, per poi arrivare alla lapide che ricorda i caduti della Seconda Guerra Mondiale e a una prima grande cava. I miei compagni di escursione cominciano ad essere abbastanza demotivati, come dargli torto? Percorrere una strada polverosa e dei ravaneti per poi raggiungere dei ripetitori e una cava che sventra la cima del monte non è di certo il massimo. Io decido di arrivare in vetta comunque e inizio a inerpicarmi su per il versante sud-ovest, tra massi che rotolano e fili di ferro. Arrivato a una casina di mattoni grigi, taglio deciso sulla destra e sono in vetta: lo spettacolo è terribile. Sotto di me un taglio mostruoso ha divorato la parte centrale del pizzo lasciando una sorta di forbice aperta nella quale sono piazzate le antenne. Mi giro un po’ intorno e vedo una scatola: penso che possa contenere il libro di vetta, ma in realtà è solo una batteria d’auto abbandonata lì chi sa perché. Sopra una sasso la scritta: “Monte Carchio m.1087”; un epitaffio, più che una scritta di vetta. Discendo il versante di prima e mi ricongiungo con i miei compagni. Non c’è più desiderio di andare oltre, verso il Folgorito, e decidiamo di scendere a casa. La gita mi ha lasciato un profondo senso di disgusto e rabbia: il monte Carchio rappresenta ciò che non dobbiamo far accadere alle Apuane.