Decidiamo allora di partire anche noi, con queste intenzioni: arrivare fino all’attacco della cresta, alla fine della zona prevalentemente erbosa, per poi valutare il da farsi, possibilmente raggiungendo l’altro gruppo per avere un supporto maggiore. Affrontiamo i prati molto ripidi in maniera decisa tenendoci prevalentemente sul lato destro del triangolo che forma la base da cui parte poi la cresta vera e propria, mentre l’altro gruppo, più lentamente, sta percorrendo il lato opposto. Usciti dalla fascia dove possiamo trovare ancora un po’ di alberi sporadici e dove affiorano le prime sporgenze rocciose, il vento inizia a martellarci in maniera furiosa: le giacche sembrano delle mongolfiere e più volte siamo costretti a sdraiarci per non rischiare la caduta. Ci fermiamo sotto il primo grosso sperone roccioso, in una zona abbastanza riparata: davanti a noi c’è tutta la Val Serenaia completamente scossa dai venti; le nubi si abbassano di colpo e ci investono per poi rialzarsi, mentre la vetta del Pisanino, al termine dell’affilata cresta, sembra un vulcano fumante a causa del vortice violentissimo che si è creato sul versante opposto, quello di Gramolazzo. La velocità di questo vortice è affascinante e terribile allo stesso tempo: sembra di vedere uno di quei documentari naturalistici dove le nubi scorrono sullo schermo a velocità aumentata, mentre qui ciò avviene realmente davanti ai nostri occhi; cominciamo a temere di dover tornare indietro.
I prati sotto di noi sono molto ripidi ma riteniamo comunque preferibile scendere questa zona piuttosto che trovarsi sulla cresta affilata con un vento tanto forte da spostarci; oltretutto se questo cessasse di colpo il rischio di un temporale improvviso sarebbe decisamente alto. Ma nonostante questi dubbi decidiamo di raggiungere almeno l’altro gruppo con il quale proseguiamo per un po’: scendiamo il primo sperone roccioso e attacchiamo nuovamente la parete ripida che si profila davanti a noi. Qui uno dei miei due compagni si avvicina al gruppo che precede, mentre io e l’altro compagno restiamo leggermente indietro. Quando ci troviamo sotto al secondo sperone, mentre gli altri sono già sopra, decidiamo che non è più il caso di andare avanti: la cresta ci appare in tutta la sua strettezza, il vento è fortissimo e siamo nuovamente costretti a sdraiarci; è molto difficile comunicare tra noi e non possiamo aver alcun contatto con gli altri più avanti. A gesti io e il mio compagno indichiamo la discesa a l’altro nostro compagno: ci sbracciamo e urliamo ma non riusciamo proprio a distinguere le parole. Lui sembra intenzionato ad andare. Ci rendiamo conto, percorsi pochi metri in discesa e riparati nuovamente dietro allo sperone quanto sia complicato tornare indietro: la parete è molto ripida e il vento non ci permette di scendere in sicurezza.
Nuove nubi trasportate dal forte vento scuotono la zona dove ci troviamo. Mentre confabuliamo tra noi l’altro compagno ci raggiunge: è agitato e ci chiede come mai abbiamo iniziato la discesa; infatti anche l’altro gruppo si è fermato, sopra di noi, ma noi non potevamo né vederli né sentirli. Evidentemente anche loro stanno valutando il da farsi: scendere dopo essersi spaccati le gambe su quei ripidi pendii non è cosa facile, è evidente. Attendiamo un po’ per vedere se quelli ripartono o meno, ma dopo alcuni minuti iniziamo la discesa cercando di chiarire quei fraintendimenti che si erano creati tra noi e lui a causa dell’impossibilità di comunicare. Mentre io e il compagno che era salito discutiamo, l’altro è già un pezzo avanti; di colpo mi rendo conto che è fermo a terra. Penso subito a un malore e lo raggiungiamo velocemente: a pochi metri da lui siamo confortati dal fatto che parla e si muove. È scivolato per una decina di metri rotolando sulla zona erbosa senza fermarsi ed ha sbattuto su dei sassi: si è lacerato i calzoni e ha delle abrasioni sulla coscia e natica destra. Si medica alla meno peggio, ma con questo vento è impossibile fare di meglio e decidiamo quindi di scendere velocemente. Dopo pochi metri scorgiamo l’altro gruppo: è sulla cresta, si fermano spesso avvolti dalle nubi che il vento gli sbatte addosso. Li seguiamo con lo sguardo per tutto il tempo della nostra discesa fino a quando escono dalla nostra visuale.
La discesa non è facile, abbiamo le gambe spezzate e più volte caschiamo in ginocchio; arrivati alla base della montagna osserviamo il Pisanino percosso dai venti, mentre nella vallata è calata una densa e scura foschia. Le ferite riportate dal nostro compagno di rivelano leggere ma peggiori di quanto avevamo potuto constatare durante la discesa. Attediamo un po’ vicino al rifugio per riprenderci e mangiare qualcosa. Ci sono altre persone al rifugio e pensiamo che la cosa migliore da fare sia tornarcene a casa, considerando che l’altro gruppo sta con ogni probabilità scendendo dagli Zucchi e non potrà arrivare prima di alcune ore. Non ci è possibile sapere che cosa stiano facendo esattamente, ma non nascondo che, tornato a casa, immediatamente controllai le notizie per sapere se avevano avuto problemi o meno. Tornato a casa, dopo essermi fatto una doccia, mi rendo conto di quanto possa essere facile talvolta prendere la decisione sbagliata: la paura è il primo segnale che dovrebbe farci riflettere sul cammino che stiamo compiendo: vale veramente la pena spingerci oltre o no? Lo spirito che muove chi va in montagna – è chiaro a tutti – è quello di arrivare in cima, contro la fatica e contro i rischi: il desiderio primario è questo, è inutile nasconderlo. Ma non dobbiamo limitarci a questo tipo di emozioni: limportante è avere sempre la capacità e determinazione nel saper ascoltare i nostri istinti primari, anche quando ci suggeriscono di fare un passo indietro.